Felt Sense e Funzione Cognitiva

Doralee Grindler Katonah, Psy.D., M.Div.
Traduzione di Maria Teresa Belgenio
https://www.sentitamente.it/focusing-e-lo-sviluppo-della-creativita/

Ho avuto diverse esperienze rilevanti lavorando con persone che hanno disturbi neurologici o che sono passate poi allo stadio terminale del cancro. In ciascuna di queste persone il progredire della malattia aveva incominciato ad alterare e deteriorare certe funzioni cognitive. Con il determinarsi di questo processo le persone hanno più difficoltà a comunicare cosa si sta svolgendo al loro interno e perfino a rimanere presenti nei confronti di coloro che li amano e cercano di prendersi cura di loro. Spesso la persona appare stanca e frastornata. Talvolta ho avuto esperienza di persone che sembravano già in coma. I modi abituali di comunicare sono spesso frustranti per il caregiver perché non c’è granché risposta, oppure ci può essere una risposta che sembra “insensata” o simile a un’allucinazione.

Eppure, in queste circostanze di declino fisico, quando il mio intervento prendeva le mosse dalla dimensione corporea del felt sense e per il felt sense, la persona appariva ancora integra e in grado di esperire nel presente. Ciò solleva un interrogativo riguardo al modo in cui il “felt sense” si collega al funzionamento cerebrale e all’elaborazione cognitiva. Darò alcuni esempi, ciascuno dei quali è una situazione particolare di questo medesimo punto.

Una donna di 60 anni mi consultò riferendo sintomi di depressione. Diceva che si sentiva giù e che aveva mal di stomaco al mattino quando doveva andare al lavoro. Raccontò che sua figlia le diceva di consultarmi perché nel corso dell’ultimo anno aveva notato dei cambiamenti in lei, come il fatto di fermarsi nel bel mezzo di un pensiero o di dire qualcosa non collegata alla conversazione che stava avendo con lei. Disse che sua figlia commentava: “Mamma non è in sé”.

Ero consapevole di ciò che avevo appreso sulle differenze tra la depressione dell’anziano e i possibili segni di demenza. Quando parlai con questa donna, riusciva a individuare tensioni pertinenti; tuttavia, il fatto che fosse ignara dei cambiamenti intervenuti nel suo funzionamento cognitivo e la confusione circa la ragione per cui le stavano dando minori responsabilità sul posto di lavoro, mi portarono ad interessarmi di possibili cause organiche. Lavorai in collaborazione con il suo medico che autorizzò molti test e visite specialistiche. Per la mia cliente fu un processo assai penoso perché divenne consapevole degli importanti deficit delle sue abilità cognitive di cui fino a quel momento aveva negato l’evidenza.

Fortunatamente, aveva un coniuge affettuoso e familiari che parteciparono al processo diagnostico e le furono di molto supporto. Di volta in volta si incontrarono con i medici e assistettero alla seduta finale quando fu confermata la diagnosi di malattia di Alzheimer.

Il medico mi descrisse quell’incontro e commentò con preoccupazione la reazione della donna alla diagnosi. Aveva domandato alla paziente se aveva capito la diagnosi. A quanto pare, lei aveva fatto solo un cenno di assenso con la testa, senza alcuna reazione affettiva visibile. Il medico le aveva poi chiesto come si sentiva dopo aver ascoltato quella comunicazione. Riferì che la paziente aveva riso e aveva detto che si sentiva bene riguardo a tutto. Sia il medico che la famiglia avevano sperimentato le reazioni della donna come del tutto inappropriate e le avevano interpretate come ulteriore evidenza del progredire della demenza. Dopodiché i familiari avevano iniziato a parlare tra loro come se la mia cliente non comprendesse cosa stava succedendo. Il marito aveva anche deciso di informare gli amici della sua condizione davanti a lei, senza il suo consenso e senza alcuna sensibilità per come si sarebbe sentita nell’assistere a quella rivelazione.

Nella seduta successiva con lei, sperimentai qualcosa di molto diverso. La mia conoscenza del “Focusing” mi ha fornito la particolare abilità di saper suscitare il vissuto [experiencing] di una persona e fui in grado di chiederle gentilmente dell’incontro con il medico e di ciò che le era accaduto. Feci il mio migliore ascolto esperienziale [experiential listening]. Credo che sia stata l’accuratezza della mia maniera di “riflettere” ciascuna parte di quanto lei diceva, a consentirle di rimanere connessa al suo “felt sense” e in questo modo di riuscire a descrivermi in dettaglio lentamente e deliberatamente la sua comprensione della diagnosi di Alzheimer, inclusi i trattamenti medici e il motivo. Con mia grande sorpresa era chiaro che aveva udito e capito tutto quello che era stato detto in quell’incontro.

Volevo poi sapere delle sue reazioni emozionali a tutto questo. Cercai di creare uno spazio che potesse contenere l’interezza delle sue risposte. Non volevo predeterminare le sue reazioni dicendo qualcosa del tipo: “Sei spaventata?” Invece volevo aiutarla ad accedere al felt sense [impressione somatica] dell’insieme della sua reazione. Ho detto qualcosa di simile: “Voglio sentire da te pian piano tutto quello che è successo dentro di te quando hai partecipato a quell’incontro con il Dr. __ e con la tua famiglia. Prenditi il tempo che ti serve.” Iniziò a piangere. E poi lentamente parlò con grande angoscia di quanto fosse stato sconvolgente per lei, di quanto si fosse spaventata, e di come si era sentita umiliata quando suo marito aveva parlato ai loro amici senza discuterne con lei. Parlava con specificità, entrando nei dettagli di chi erano questi amici e di cosa significavano per lei e perché, soprattutto per quello che essi rappresentavano, si era sentita tanto svalutata per le azioni di suo marito. Iniziò a esprimere di cosa era preoccupata per ciò che poteva accadere in futuro; e molto altro. Rivelò proprio tantissimo. Disse anche che nell’incontro con i medici non voleva spaventare la sua famiglia perciò aveva agito come se non le importasse.

Tutto il mio intervento con lei è consistito nel cercare di consentirle di entrare in contatto con la dimensione corporea di ciò che provava [“felt sense” level of experiencing]. Nient’altro. Ero colpita da quanto fosse rimasta integra, malgrado il decadimento cognitivo che era diventato più serio nei molti mesi che l’avevo conosciuta. Aveva colto totalmente la sua situazione di fronte alla quale provava reazioni emotive comprensibili. Era chiaro che aveva bisogno di avere una continuità con l’interezza della persona che ancora era, partendo dal presupposto che era in grado di capire ciò che le stava accadendo, almeno a quel punto della progressione della malattia.

Sapevo che questa donna era molto schiva e riservata. Anche prima della malattia, era una sua caratteristica mantenere i sentimenti per sé e non consentire alle persone di sapere quando era turbata. Aveva subìto l’esperienza di un trauma infantile e aveva cercato di dirlo a sua madre, ma sua madre le aveva detto di non parlarne mai. Così davvero, mentre affrontava questa difficile malattia, aveva reagito come tipicamente avrebbe fatto. Ma questo non significava che lei non sapesse cosa sentiva o ciò che provava. Il medico e i suoi familiari avevano interpretato il suo riserbo e il tentativo di non lasciar trasparire le sue reali reazioni come causate dalla malattia.

A motivo di ciò che sapevo del focusing, in quella seduta cruciale ho potuto fare domande a questa donna in modo tale da suscitare la sua esperienza interiore. Chiesi un incontro con lei e suo marito e con il mio sostegno fu in grado di dirgli come si era davvero sentita riguardo all’interazione che lui aveva avuto con i loro amici. A lui spiegai in che modo lei avesse bisogno che lui si informasse di come lei si sentiva dentro di sé. Interventi di questo tipo li aiutarono a modificare alcuni dei loro schemi di comunicazione così che lei poté continuare a esprimere cosa si svolgeva dentro di lei, mentre affrontava questa malattia implacabile che non ha cura.

A un esperto di fisiologia cerebrale ho sentito commentare che le persone ammalate di Alzheimer non hanno un’anima perché non hanno più un sé che fa esperienza. Riguardo alla demenza sembra esserci l’assunto secondo cui una volta che un determinato funzionamento cognitivo inizia venir meno, là dentro non c’è una persona che continua ad avere un vissuto “integro” [“intact” experiencing]. Questo porta la gente a modificare il modo in cui si relaziona con persone come queste, il che a sua volta aumenta l’isolamento sociale e può, forse, accelerare il declino.

Ciò che ho osservato in questa situazione mi ha portata a chiedermi se non stiamo saltando alle conclusioni riguardo a ciò che accade alla persona e a ciò che avverte direttamente [experiencing]. Ho letto di alcuni pazienti affetti da Alzheimer che hanno cominciato a dipingere o disegnare e che questo ha avuto un impatto positivo sui loro sintomi, fornendo allo stesso tempo uno sbocco per comunicare con efficacia espressiva. Non sono un neurologo, ma mi chiedo come avviene che anche quando alcune zone del cervello non possono funzionare normalmente, il sé continui a fare esperienza e a cogliere la propria situazione. Può darsi che poiché il felt sense è di natura fisica, la conoscenza che procede per questa via possa continuare a elaborare quando l’attività di certe funzioni viene a mancare.

Sta morendo

Ho lavorato con A. per circa un anno e mezzo. Stava lottando con un cancro metastatico e utilizzava le pratiche “Fare Spazio” e “Focusing” su base settimanale. C’è molto da dire sulla situazione di questa donna, ma voglio parlare di ciò che è accaduto quando è stato evidente che stava morendo. Era stata in ospedale per l’ultima terapia possibile. Avevo pianificato di farle visita, ma quando chiamai il numero della sua stanza non mi aveva risposto nessuno. Cercai di contattare l’infermeria e mi dissero che il marito non era stato lì da molti giorni. Allora gli telefonai e mi informò che i medici gli avevano riferito che il trattamento non era stato efficace e che non c’era nient’altro che potessero fare. Gli dissi che stavo andando in ospedale.

Quando arrivai la porta era chiusa. Entrai, con ansia e timore. Non sapevo cosa aspettarmi. La stanza era buia e le tende erano chiuse. Pensai: oh accidenti, ora che non c’è cura medica che può salvarle la vita, tutti l’hanno abbandonata! Lentamente mi avvicinai al suo letto. Appariva esanime. Era distesa priva di energia, respirando a fatica. La bocca era aperta e sembrava che gli occhi le fossero roteati all’indietro. Pensai che fosse in coma. La chiamai delicatamente e non ebbi risposta. Ero così sopraffatta dal suo declino che mi sedetti su una sedia e cominciai a piangere. Improvvisamente i suoi occhi si aprirono completamente. Si sedette persino sul letto e mi scrutò con fierezza. Mi guardò dritta negli occhi e esclamò: ”Stai sentendo la temporalità di tutto!” Poi, in un certo senso, si ravvivò. Parlò di come sapesse che stava morendo. Le domandai di cosa avesse bisogno adesso, e allora iniziò a parlare di cosa significasse per lei che stava per morire e di come volesse far fronte a questo, compreso di cosa voleva occuparsi riguardo alle relazioni e alle proprietà prima che morisse. Andò a casa il giorno dopo e cominciò un viaggio risoluto nel suo fine vita.

Che cosa rivelava il mio pianto che l’aveva risvegliata? Mi feci questa domanda. Certo, era un’espressione della mia cura per lei. Ma ancora di più, ero completamente presente con il mio vissuto corporeo [my bodily experiencing] e, in una maniera molto differente da quella dei medici e di suo marito, mostravo di riconoscere la verità della sua situazione direttamente in sua presenza. Questo le aveva dato modo di rimanere in contatto anche a livello corporeo con la propria conoscenza [her own bodily knowing] della verità.

La Comunicazione Interpersonale

Man mano che A. proseguì il suo percorso del fine vita, il suo funzionamento cognitivo peggiorò ancora di più. Per un po’, dopo essere tornata a casa e aver cominciato ad affrontare direttamente l’elaborazione della sua morte, era stata in grado di comunicare bene. Ma gradualmente, i suoi pensieri scivolarono quasi nella pura immaginazione. Farfugliava di immagini e poi si disperdeva in uno stato che sembrava di sogno. Provava molta agitazione e restava solo a letto con matite colorate e tratti scarabocchiati sulla carta. In questa fase, quando andavo a farle visita sembrava irraggiungibile.

Avevo parlato con suo marito che descriveva la stessa esperienza e diceva che lei si allontanava sempre di più. Lo incoraggiai a parlarle di cosa provava lui, con la concretezza e l’intensità corrispondenti alla sua [di lui] esperienza. Ho sostenuto questo suo processo e ciò fu efficace. Potevamo vedere chiaramente che lei “ritornava” e riprendeva il contatto oculare, e rispondeva con stupende espressioni dei suoi sentimenti e di cosa significava per lei trovarsi in questa fase del processo. Ho imparato che sebbene non potesse più dare inizio a una comunicazione, era ancora consapevole e continuava a elaborare il suo congedo, specialmente in relazione alle persone a lei più vicine. Ciò di cui aveva bisogno era che gli altri le parlassero a partire da ciò che essi provavano [their felt experiencing], per entrare in contatto con quello che provava lei [her own experiencing]. Così non veniva lasciata da sola nella parte terminale della sua vita. Anche suo marito poteva continuare a sentirsi vicino a lei, ed ebbe modo di dire tutto quello che aveva bisogno di dire prima che lei morisse.

In ogni circostanza di questi tre esempi, restando in contatto con il mio felt sense delle situazioni e prestando attenzione al felt sense dell’altra persona, la connessione tra esperienza ed esplicazione è rimasta possibile quando il linguaggio più ordinario e le funzioni cognitive si stavano perdendo.

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Testo originale: Doralee Grindler Katonah, “Felt Sense and Cognitive Function”, The Folio Vol.18, N.1, 1999. Da: http://previous.focusing.org/cognitive.html