La mediazione umanistica e il Focusing: un incontro allo specchio

di Grazia Azzali

Premessa

Ho conosciuto la Mediazione Umanistica nell’ottobre del 2015. Ho ricordi vividi di quel momento, delle parole e delle emozioni che quell’incontro ha fatto nascere in me. Non ne sapevo nulla, una pura intuizione mi stava portando lì quel giorno. Intorno a me molti volti, nei loro occhi la luce di chi sta cercando, la speranza di chi ha già intravisto nella mediazione una possibile altra strada, un’opportunità. Stavo cercando anche io, quel giorno, con un bisogno che a tratti era così famelico da sembrarmi disperato.

Una forte insoddisfazione abitava quegli anni e ogni mia giornata, e la necessità di un cambiamento era già chiara. Eppure, per qualche ragione, il momento di cambiare non era ancora arrivato. Per due giorni, in quella stanza, ho riempito ogni minuscolo angolo di me di nutrimento puro, ho vibrato di sorpresa e di emozione, ho spalancato gli occhi dallo stupore.

‘Incanto’ è stata la parola che ho condiviso col resto del gruppo, a conclusione di quelle giornate. Ero letteralmente incantata, infatti, da quanto avevo appena incontrato. La prospettiva riparativa aveva iniziato a mostrarmisi nella sua forza trasformatrice e rivoluzionaria: è stato quasi semplice, perché naturale, scegliere che il mio cambiamento sarebbe andato in quella direzione.

Ho conosciuto il Focusing nell’aprile del 2016. Avevo già iniziato, da diversi anni, una non sempre piacevole esplorazione della varietà dei miei paesaggi interiori, con un percorso di Analisi Bioenergetica. Nel tempo, mi era diventato via via più chiaro che la strada verso una piena e autentica conoscenza di sé non può che passare anche attraverso l’ascolto del corpo. Il Focusing seguiva perfettamente il tracciato di questa consapevolezza e mi appariva da subito – anche qui, per intuizione – un altro, preziosissimo strumento di dialogo con sé stessi.

Non subito, però, ho potuto sentirmi libera praticandolo. Le aspettative, la voglia di fare bene, il costante e (certo) comprensibile bisogno di ottenere una ricompensa fatta di un maggiore benessere hanno per un certo tempo accompagnato la mia pratica del Focusing. E più andavo avanti aspettandomi qualcosa ‘in cambio’, più di fatto si indeboliva la motivazione a proseguire nello studio e nell’approfondimento della pratica. Oggi mi appare chiaro che è proprio quando è libero dalla necessità e dal bisogno di ottenere qualcosa (una risposta… una soluzione!) che il Focusing offre con generosità i suoi più preziosi doni, spesso con una semplicità sconcertante e attraverso una potente spinta al cambiamento che si innesca solo passando per l’accoglienza di ciò che è. Ho custodito sempre, negli anni, le parole che Roberto Tecchio – il mio Focusing Trainer – mi ha scritto all’inizio del percorso: “Ogni incontro di Focusing è una gemma”.

Due strade parallele, quindi, che ho iniziato a percorrere con passione e cura, nella consapevolezza che entrambe potessero essere fonte di grande arricchimento per la mia crescita, personale e professionale. Ho sempre intuito che ci fosse una chiara armonia ad accompagnare i miei passi lungo queste due strade, ma non avevo mai pensato di poterle mettere in relazione con uno sguardo più metodico e analitico. L’occasione di farlo – provarci, quantomeno – si presenta oggi: mi offro a questa opportunità con gioia ed entusiasmo, con speranza, curiosità e voglia di approfondire, con umiltà e un po’ di timore.

Incanto e gemma sono le parole che voglio tenere qui accanto a me, mentre scrivo, poiché rappresentano entrambe l’inizio di due parti molto importanti della mia vita.

1. La mediazione umanistica e il Focusing: il primo incontro

“La mediazione offre uno spazio per accogliere la separazione. (…) Essa si inscrive nel bisogno fondamentale dell’individuo di riconoscere, di attraversare il conflitto, la lotta che ognuno combatte, non soltanto con gli altri, ma anche con sé stesso, e di confrontarsi, così, con le questioni fondamentali della vita”11.

Leggendo queste parole di Jacqueline Morineau, l’immagine che può affacciarsi alla mente è quella di uno squarcio di luce che si apre con forza, tra qualcosa di pesante, di scuro, di denso.

Non è affatto facile trovare uno spazio e un luogo per questa densità, non lo è volgere lo sguardo – coraggiosamente – a quella luce. L’esperienza del conflitto è qualcosa di molto vicino e molto noto a ciascuno di noi, semplicemente in quanto esseri umani. Viviamo un conflitto ogni volta che, ad esempio, sentiamo di non essere stati visti, riconosciuti, rispettati nei nostri bisogni e nelle nostre emozioni. Ogni volta che sosteniamo di avere davanti agli occhi un’ingiustizia, qualcosa che minaccia i nostri valori, i nostri ideali, ciò in cui profondamente crediamo e su cui saldamente basiamo le nostre scelte.

Ecco, tutto questo può destabilizzare, più o meno profondamente. Ne può nascere una rabbia accecante, un dolore urlato con forza, o un silenzio raggelato. Cosa fare, dunque, di tutto ciò che dal conflitto nasce? Cosa fare del caos che ne consegue, di quel “disordine”2 di cui parla proprio la Morineau, e di questa separazione che si genera?

Il modello della mediazione umanistica propone la sua risposta a questi interrogativi: il caos generato dal conflitto può trovare accoglienza nello spazio e nel tempo della mediazione.

Uno spazio, sì, che sia in primo luogo neutro, che sia accogliente, che garantisca l’intimità e la confidenzialità. Uno spazio non solo fisico, dunque, ma vivo, fatto di persone, in cui rendere possibile un (forse) difficile incontro tra due verità in contrasto.

Un tempo, non prestabilito, scandito solo dalle esigenze delle parti3; un tempo che non accelera né rallenta in funzione del raggiungimento di un risultato, ma che con rispetto asseconda ciò che naturalmente accade nella mediazione.

È questo lo spazio e il tempo in cui avviene l’incontro tra le due parti in conflitto, in presenza di tre mediatori4. Compito del mediatore – se di compito si può parlare – è quello di facilitare questo incontro, di offrire e continuamente ridare la parola alle parti, di accompagnare con delicatezza i momenti in cui una nuova narrazione dei fatti inizia a emergere, di valorizzare quei passaggi in cui ciascuna delle parti inizia gradualmente a uscire dal ruolo in cui è cristallizzata e a guardare l’altro come persona. A questo scopo, il mediatore si limita a restituire alle parti le emozioni che queste esprimono nella loro narrazione dei fatti e nel confronto con l’altro. Nel fare ciò, si spoglia di ogni elaborazione personale su quanto vede accadere, di ogni interpretazione su ‘come dovrebbe andare’, rinuncia al possibile desiderio di un lieto fine. Cerca di pensare poco, e sentire molto. “Sento paura”: questa è la formulazione più lineare e semplice di uno dei principali strumenti del mediatore, lo “specchio”.

Proseguendo in questa descrizione, che non ha alcuna pretesa di esaustività e completezza, ha senso aggiungere che la mediazione non è giudizio, non è interpretazione, non è uno strumento per il raggiungimento di altri fini, non è un luogo in cui dare voce alla sete di vendetta, non è una strada che deve portare al perdono. È un incontro. Caotico, urlante, silenzioso, gelido o bollente, accelerato o quasi immobile, composto o sfrenato. È l’incontro dei mille pezzi in cui si è fratturata una relazione, delle emozioni contrastanti e contraddittorie che possono agire in mezzo a questa frattura. L’incontro, anche (soprattutto!) di due persone, di due essere umani, che potranno – se è possibile – arrivare in quel luogo in cui ben più forte di ogni dolore, di ogni lacerazione, di ogni incolmabile distanza c’è la vicinanza data dal loro essere umani.

“ll Focusing è la fase di sviluppo che si apre dopo essere entrati in contatto con le emozioni. Riguarda un diverso tipo di attenzione interiore nei confronti di ciò che all’inizio è percepito confusamente. Tutto questo viene successivamente messo a fuoco e, per mezzo di specifici movimenti interiori (…) ha luogo un cambiamento a livello corporeo. Un’altra scoperta importante è che il processo di cambiamento reale è accompagnato da sensazioni piacevoli”5.

È necessario subito far parlare Gendlin per iniziare a introdurre in questo elaborato una descrizione di cosa sia il Focusing. Non nascondo che l’impresa mi appare ardua, ma certo potrò più verosimilmente – e modestamente – parlare di cosa sia il Focusing per me.

Eugene T. Gendlin è lo psicoterapeuta e filosofo della scienza ebreo-austriaco, poi emigrato negli U.S.A, che ha pubblicato nel 1978 il primo manuale di Focusing, frutto di un lavoro di ricerca iniziato negli anni ‘60 presso l’Università di Chicago. Ciò su cui questa ricerca si interrogava era il motivo per cui in parecchi casi la psicoterapia fallisse. L’ascolto di centinaia di ore di registrazione di sedute porta il gruppo di ricerca a conclusioni quantomeno notevoli.

Una in particolare colpisce Gendlin, fin quasi – a suo stesso dire – a turbarlo: i pazienti che portavano avanti una terapia con esiti nettamente positivi avevano agito sin dalla prima seduta in una certa maniera, tanto da rendere evidente immediatamente, all’occhio esterno degli studiosi, chi avrebbe tratto beneficio dalla terapia e chi no.

Cosa facevano, quindi, queste persone in particolare? Certi pazienti, a prescindere dalle tecniche adottate dai terapeuti, si distinguevano in primis per un caratteristico modo di comunicare. Nella narrazione di sé e di quanto emergeva di volta in volta nel percorso di analisi, si soffermavano di tanto in tanto sulla scelta di un termine anziché di un altro, rallentando il ritmo del discorso, quasi a voler verificare la correttezza delle parole pronunciate,confrontandole con un qualcosa che ‘sentivano’ al loro interno, nel corpo. Dando attenzione e spazio a questo qualcosa, a questa sensazione fisica che nasceva in risposta all’enunciazione di certe parole (chiamata da Gendlin ‘felt sense’), i pazienti riuscivano a fare luce in maniera diversa e più chiara su alcuni aspetti di sé e della loro esperienza problematica, sperimentando come conseguenza un cambiamento a livello corporeo. Dall’attenta osservazione di queste persone e del modo particolare in cui entravano in contatto con il proprio vissuto, Gendlin arriva a creare un modello, un approccio, in cui individua “sei passi”6, da non intendersi come elementi rigidi o meccanici (il Focusing è per sua natura un processo fluido, creativo…), ma come una sorta di mappa che potesse aiutare a orientarsi e facilitare l’insegnamento del Focusing ad altre persone. Sono esattamente quegli “specifici movimenti interiori” di cui si parla nella citazione in apertura, e vengono così definiti:

1. creare uno spazio;

2. la sensazione sentita;

3. trovare un simbolo;

4. la risonanza;

5. porre domande;

6. accoglienza.

Ecco, mi sembrava necessario fornire una cornice teorica7 che rendesse meno oscuro il campo in cui vorrei provare a condurre il mio ragionamento. Tuttavia, non procederò con l’analisi approfondita dei singoli passi, poiché maggiormente mi preme ora iniziare ad ampliare lo sguardo e porre l’una accanto all’altra le due pratiche su cui intendo riflettere.

C’è un fatto, che già scalpita per essere notato. Non può che essere il primo, ma più che essere il primo è in effetti ciò che in assoluto avvicina questi due mondi, e li rende costantemente, profondamente connessi. Il primo luogo in cui si incontrano, la Mediazione Umanistica e il Focusing, è quello in cui al centro c’è l’essere umano, la sua complessità, la sua ricchezza, le sue contraddizioni. La sua bellezza e la sua miseria. Emozioni che stridono o che si sciolgono morbide, ma che vogliono in ogni caso essere ascoltate, riconosciute, rispecchiate.

2. Un ascolto che non giudica e che non ha un obiettivo

Io non vorrò mai che tu sia come voglio,
vorrò sempre che tu sia come sei.
Dal libro “Superare i conflitti” (Gabriele Policardo)

2.1 Un luogo circolare che si chiama società

Siamo in questo luogo adesso, circolare e vasto, al cui centro è collocato l’essere umano. È possibile muoversi in questo spazio, vagare con occhio curioso e aperto nell’esplorazione di quanto si offre all’incontro. Immagino qui la Mediazione Umanistica e il Focusing, che generosamente mostrano gli aspetti peculiari della loro essenza, permettendone il metterli in relazione. C’è subito una vicinanza di intenti, per così dire, tra queste due pratiche, una direzione comune verso cui si protendono.

Dice la Morineau, nell’introduzione a “Lo spirito della mediazione”, parlando dei mediatori e di tutte le persone interessate alla mediazione: “Non nascondiamo che il nostro obiettivo a lungo termine è quello di promuovere una cultura della pace nel mondo”8. Un’affermazione di enorme respiro, che ci mostra come ogni singolo percorso di giustizia riparativa affluisca in una dimensione ben più ampia, quella dove si muove la volontà di un cambiamento culturale e sociale, in cui sia centrale l’armonia nelle relazioni.

Intravedo un simile movimento – dal particolare all’universale, dall’esperienza del singolo a un possibile cambiamento nella società – anche nella visione di Gendlin. Leggiamo infatti, già nelle prime pagine del manuale9 “Uno dei nuovi principi cardine è che il processo di cambiamento è piacevole. È come respirare aria fresca dopo essere rimasti a lungo in una stanza chiusa” e poco più avanti, appunto: “La cosa più bella in tutto ciò è che possiamo costruire il processo di cambiamento nel complesso della società, non soltanto nelle sedute tra terapeuta e paziente (…).

Ora che l’atto interiore può essere insegnato, possiamo trasmetterlo non solamente ai pazienti in terapia ma a chiunque. Abbiamo scoperto che può essere insegnato nelle scuole, nei gruppi parrocchiali, nei centri della comunità e in molti altri posti. Chiunque può utilizzare questo processo interiore. È anche possibile illustrare alle persone alcune modalità molto specifiche per aiutarsi reciprocamente”.

Ecco, due sguardi che, in entrambi i casi, partono dall’individuo per arrivare alla società. Una possibile diversa società, in cui c’è posto per la parola pace, per la parola costruire, per le parole aiutarsi reciprocamente, senza retorica alcuna. Vedo in questo la forte e comune componente politica dei due approcci, nel senso più nobile e pulito che questo termine può esprimere10.

2.2 Come dentro, così fuori

Una prima, preziosissima componente che dà forma all’agire tanto della Mediazione Umanistica quanto del Focusing è senza ombra di dubbio l’Ascolto, e non si può fare altro adesso che dare spazio a questo elemento. Di che tipo di ascolto si parla? Quanto hanno in comune questi due approcci, da questo punto di vista?

È sorprendente osservare come, al di là di volatili intuizioni, si possano rintracciare corrispondenze esatte e molto precise. In primo luogo è importante affermare che si sta parlando, in entrambi i casi, di un ascolto di sé, prima che dell’altro, perché “Ascoltare è innanzitutto comunicare con se stessi, impegno ad auto-educarsi. Se non riusciamo a comunicare con noi stessi diventa problematico anche il comunicare con gli altri”, e andando più in profondità “Si tratta, innanzitutto, di offrire un’apertura all’alterità presente nella propria dimensione interiore, vale a dire darsi la capacità di allestire lo spazio dell’incontro con se stessi: questo rappresenta il primo e fondamentale ascolto. Se la persona si priva dell’ascolto di se stessa, non riesce a incontrare in modo autentico l’altro da sé”. C’è già in tutto questo – che è tratto dal volume “La giustizia riparativa. Formanti, parole e metodi”, di Grazia Mannozzi e Giovanni A. Lodigiani11 – molto di ciò su cui vorrei far procedere questa riflessione.

Quando leggiamo, in queste righe, parole come apertura all’alterità presente nella propria dimensione interiore, stiamo già parlando una lingua che è anche quella del Focusing. È grazie al Focusing, infatti, grazie al processo descritto attraverso i ‘sei passi’ cui si è accennato, che è possibile – ascoltandosi – entrare in relazione con dei vissuti emotivi interiori, ciascuno espressione di varie parti di noi. Prima di andare fuori, verso l’altro, vado dentro, ad incontrare quanto si muove in me. Perché l’ascolto dell’altro sia realmente pieno, presente e accogliente non si può prescindere da questo, dal fare prima una – talora dolorosa – passeggiata tra i propri paesaggi interiori.

“Come dentro, così fuori”, per usare un’espressione molto cara a Roberto Tecchio, che appare particolarmente felice e illuminante nella sua semplicità.

Eppure nel Focusing non si parla solamente di questo ascolto, dell’ascolto di sé. C’è da aggiungere a questo punto che questa pratica acquista tutta la sua potenza e sorprendente efficacia dall’essere condivisa con un’altra persona, che durante il processo ascolta e accompagna chi focalizza12.

Che cosa fa quindi, in concreto, la persona che focalizza? E cosa fa chi la accompagna? Chi focalizza, dopo essere entrato in quel particolare stato di apertura e rilassatezza che è il cuore del ‘primo passo’ del Focusing – detto ‘fare spazio’ – dà voce a quanto sta incontrando in sé, verbalizza le sensazioni fisiche che si manifestano, scegliendo per loro una certa parola, un simbolo, un’immagine. Possono esserci, ad esempio, interventi come questo: “C’è un’immagine di me che corro senza respirare, corro verso qualcosa senza veramente respirare, e mentre lo dico sento – qui nella parte centrale del petto – che qualcosa si indurisce, sì… come a confermare queste parole. Si irrigidisce ecco, sento un irrigidimento qui nel petto, e mi muovo come un blocchetto… come un blocchetto che va, va, va… ma non è morbido, è rigido”. La persona che accompagna offre, per l’appunto, il suo ascolto: attento, rispettoso, delicato, non giudicante e la persona che focalizza riesce a muoversi fluidamente nel processo grazie anche a questo accompagnamento, che non vuole indicare una direzione o suggerire strade, ma solo esserci, offrendo “una presenza attenta e non manipolatrice”13.

Si tratta, in entrambi i casi, di un ascolto che viene offerto generosamente e che non ha altri obiettivi se non quello di facilitare l’espressione dell’altro, di restituire all’altro la parola, di stargli accanto con una presenza gentile e fiduciosa. Infatti “L’ascolto attento e attivo (…) ha una valenza più rilevante del semplice ascoltare: è dare ascolto, è farsi dono all’altro (…). È lasciare che l’altro stia di fronte a noi, che parli a noi con tutta la sua persona: corpo, linguaggio, tono della voce. Dare ascolto è donare tempo; è attendere l’altro, con le sue indecisioni, le sue titubanze, i suoi ritardi, la sua difficoltà ad esprimersi, le sue reticenze e i suoi silenzi”14.

Ecco che – grazie anche a queste ultime parole di Mannozzi e Lodigiani – iniziamo a muoverci morbidamente in questa danza tra il mondo della Mediazione Umanistica e quello del Focusing, tra termini e linguaggi che suonano così affini. Ascolto di sé, quindi, per poter poi ascoltare l’altro. Non è necessario fare grandi cose, non è necessario che questo ascolto indichi una direzione, perché alla sua base c’è una profonda, piena fiducia.

Non solo: può avere il coraggio, questo ascolto, anche di rischiare di incontrare il silenzio, e non averne alcuna paura.

2.3 Il miracolo della Presenza

Come è possibile offrire questa ‘forma speciale’ di ascolto, come quella di cui si sta parlando? Tanto nella Mediazione Umanistica, per il mediatore, quanto nel Focusing, per chi focalizza e per chi accompagna, offrire una simile qualità di ascolto è possibile solo ponendoci nello spazio di una piena Presenza.

Ho bisogno di affidarmi al linguaggio del Focusing, in questo passaggio, per poter descrivere con più chiarezza questo concetto, che pure ha tanto a che fare anche con quanto accade in mediazione e con il ruolo dei mediatori. “La Presenza è uno stato dell’essere, non una tecnica: noi ci sentiamo Presenti nella relazione con l’altro, sentiamo di essere sinceramente aperti, ben disposti, accoglienti, empatici, fiduciosi, autentici verso la partner, verso la sua esperienza, il suo vissuto; tutto il resto viene di conseguenza”15. Presenza significa soprattutto tacere, essere una compagnia non invadente; significa, facendoci aiutare da Gendlin, “lasciare andare le nostre eccellenti idee, interpretazioni, consigli, il nostro desiderio di offrire rassicurazioni amichevoli o di raccontare quello che abbiamo fatto in una situazione simile”16. A queste parole Gendlin aggiunge un’affermazione, semplice e rivoluzionaria: siamo tutti capaci di donare la nostra piena Presenza, il nostro esserci completamente per l’altro, semplicemente in quanto esseri umani. Eppure “la maggior parte delle persone non lo sa! Pensa di dover fare qualcosa di speciale o di essere interiormente mancante di qualcosa o di non riuscire a trovare qualcosa di particolarmente perspicace o utile da dire. Nessuna di queste cose è necessaria, per fortuna! Chi sei e cosa dici fa una differenza minima. È la compagnia umana che fa la differenza e approfondisce immensamente il processo. Sapere questo è un fatto molto grande! (…) So che la mia compagnia non consiste nelle mie caratteristiche personali, perché non sono così speciali; inoltre per la maggior parte del tempo anche le buone caratteristiche che ho non aiutano tanto. Cosa aiuta? È il processo che nasce dall’interno della persona – da sotto il suo sé cosciente”17.

Quanto di tutto questo ritroviamo nella mediazione! Anche per il mediatore assume un’importanza centrale avvicinarsi al caos del conflitto, e quindi alle parti, da uno spazio di centratura e di presenza. È del tutto essenziale che questi sia in contatto con i suoi vissuti personali e abbia grande familiarità con le sue emozioni, diversamente non avrà accesso, non potrà sentire quelle dell’altro. Esattamente come si legge in David Rome, infatti “In situazioni di conflitto, è ancora più importante riuscire ad ascoltare e parlare da un luogo interno equilibrato ed empatico”18.

Non solo: considerando che, nel modello della Mediazione Umanistica, i mediatori che prendono parte alle mediazione sono tre (e ne vedremo più avanti il motivo), essere pienamente presenti al momento significa per loro anche sentire gli altri mediatori, essere connessi e poter diventare quindi un’unica voce.

Non ci sorprende dunque – puntellando ancora questo ragionamento con le parole di chi ha definito i due approcci a confronto – leggere nel manuale di Mannozzi e Lodigiani che “l’ascolto attento e attivo è presenza ascoltante e si basa necessariamente sulla creazione di un clima/ambiente positivo dove la persona si possa sentire compresa e non giudicata. (…) significa essere aperti e disponibili contemporaneamente verso l’altro e verso se stessi, per sentire le proprie reazioni ed anche essere consapevoli dell’incompletezza del proprio punto di vista, accettando anche l’eventuale difficoltà di non capire”19.

Ma allora se, come dice Gendlin (con quelle parole che sembrano quasi sorridere luminose), nel Focusing20 non fa alcuna differenza chi sono e cosa faccio, perché le mie caratteristiche personali in fondo “non sono così speciali” e se, come in Mannozzi e Lodigiani, nella mediazione il punto di vista del singolo mediatore non può che essere incompleto, accettando questi anche di non capire, ecco qui che si fa avanti – timidamente, certo – una parola che molto profondamente abita entrambi questi mondi: umiltà. L’incontro con l’altro, nella mediazione quanto nel Focusing, è prima di tutto un umile movimento verso la ricchissima complessità altrui, ed è necessario spogliarsi di ogni volontà di dover fare qualcosa, e ancor prima del convincimento di poterlo fare.

Questa affermazione può destabilizzare, collocandosi molto in contrasto con ciò che normalmente, nella quotidianità, caratterizza il modo in cui si ritiene di porgere aiuto a qualcuno in difficoltà. È frequente, e umanamente molto comprensibile, offrire in questi casi un ben (pre)confezionato pacchetto di soluzioni, di consigli, di narrazioni personali. Sorprendente e frustrante – per chi, così facendo, è mosso dalla nobile intenzione di aiutare – è constatare che questa modalità non riscuote alcun successo e non dà nessun conforto. Al contrario, è presumibile che la persona, soccorsa da una lunga lista di “forse dovresti – al posto tuo io – ti consiglio di…”, finisca per sentirsi ancora più in difficoltà, confusa o scoraggiata. Incontrarsi in uno spazio di accoglienza incondizionata e offrire all’altro una piena attenzione, una gentile e rispettosa presenza può invece effettivamente segnare la strada verso un maggiore benessere.

Liberi dall’idea di volere a tutti i costi fare bene all’altro, offrendo irriducibili certezze, si può fare spazio anche alla fragilità, parola anche questa così cara alla Mediazione, come al Focusing.

Dice Adolfo Ceretti, infatti: “La fragilità può essere anche un valore, come ci insegna la psichiatria gentile di Eugenio Borgna, perché ci consente di immedesimarci con più facilità e con più passione negli stati d’animo, nelle emozioni e nei modi di essere degli altri. E può essere perfino una salvezza: dalla supponenza, dall’arroganza dall’eccessiva sicurezza di sé”21.

2.4 L’incontro con le parti: all’interno e all’esterno di sé

C’è una diretta corrispondenza terminologica che può essere interessante qui approfondire, è un qualcosa che da subito suggeriva – anche se forse in maniera poco raffinata – un possibile terreno di incontro tra Mediazione Umanistica e Focusing: in entrambi questi modelli, che come si è visto fin qui propongono possibili strade di ascolto e conoscenza di sé e dell’altro, verso un complessivo maggiore stato di benessere e di pace – si parla di incontro con delle parti.

Laddove c’è un conflitto, una tensione di qualsivoglia natura (dentro, nel corpo, o fuori, nella relazione con un’altra persona) ci sono sempre almeno due parti, che probabilmente non si piacciono. C’è una buona notizia, a questo proposito: “La buona notizia è che lavorare sui conflitti interiori (…) è un allenamento eccellente per imparare a lavorare con i conflitti esterni.

Imparare a stare in compagnia dei propri ‘sé parziali’ nel momento in cui non vanno d’accordo offre un buon esempio del comportamento da assumere con gli altri in situazioni conflittuali”22.

Il Focusing in effetti, attraverso i ‘sei passi’ cui si è accennato sopra, è un possibile modo per entrare in contatto con i diversi vissuti interiori di una persona, con delle sensazioni fisiche che hanno una precisa qualità emotiva e che sono espressione ciascuna di un ‘sé parziale’, come dice Rome, cioè delle varie parti che si muovono in ognuno. Nel prendere una decisione, ad esempio, sarò di certo per alcuni aspetti orientato in un senso, per altri nel senso opposto. Se in una focalizzazione, offro un’attenzione presente, aperta e accogliente a quanto accade nel corpo mentre si prospettano prima l’una, poi l’altra possibilità, potrò cogliere delle sensazioni significative23 diverse. Si possono intendere queste varie ‘voci’ emotive, queste diverse sensazioni, come espressione di diverse parti di se stessi.

Nel processo di focalizzazione ciò che si realizza è un vero e proprio dialogo con queste parti partendo dal sorprendente presupposto che “il corpo non parla, ma se domandi…risponde”24. Si può, ad esempio, provare a rivolgere – con delicatezza e gentilezza – una domanda ad una parte che sta sentendo paura, provando semplicemente a dirle, ad alta voce “Cosa c’è in tutta questa situazione che ti fa così paura?”. Se questo sta avvenendo in uno spazio di accoglienza autentica, se siamo pienamente presenti e aperti a ricevere, se non vogliamo – quindi ottenere una certa risposta perché è proprio quella che ci farebbe comodo sentire, sarà possibile percepire un cambiamento nel corpo. L’allentamento di una tensione, forse, se la parte è sollevata dall’essere stata “vista” e dall’aver avuto un momento di ascolto, o al contrario un aumento della stessa, se le è particolarmente difficile rispondere alla domanda posta. Oppure potrebbe emergere una nuova sensazione, si potrebbe scoprire che dietro la paura c’è anche dolore, o magari solitudine, e potrebbero emergere delle immagini nuove nuovi simboli.

Secondo Germana Ponte, appassionata insegnante di Focusing e formatrice di professionisti di questa disciplina, ciò che fa il Focusing con le parti “non è un lavoro di ristrutturazione della personalità, questo (dice lei) lo lascio ben volentieri agli psicoterapeuti, quando è necessario. È piuttosto un processo di autoconsapevolezza (…). Per certi versi è simile alla meditazione Vipassana, in cui si accoglie ciò che emerge da uno stato di Osservatore amorevole, per poi lasciarlo andare. L’unica differenza che introduce il focusing è che, invece di lasciar andare, si entra in relazione con quel qualcosa, si dialoga in modo da conoscere le sue ragioni. E questo ha come conseguenza un reset armonico dell’intero sistema, poiché qualcosa che è stato accolto ascoltato si rilassa e collabora”25.

Anche in mediazione si incontrano – fuori da sé – delle parti, e queste entrano nella stanza della mediazione in posizioni talora del tutto contrapposte. Ciascuna con una sua narrazione, un suo convincimento, ciascuna con i suoi bisogni. Ciascuna cristallizzata nel suo ruolo e forse congelata dietro la sua maschera. I mediatori accolgono nel tempo e nello spazio dell’incontro di mediazione ciò che le parti vi portano, si offrono come facilitatori in quella che può essere un’opportunità per liberarsi delle maschere – se le parti lo vogliono – e vedere con uno sguardo diverso l’altro, ‘semplicemente’ nella sua umanità. Quanto più riuscirà a essere una presenza delicata, rispettosa, una voce che non si impone ma che in maniera lieve si inserisce in ciò che sta accadendo, tanto più il mediatore starà svolgendo bene il suo compito e starà davvero permettendo che le parti esprimano se stesse, autenticamente.

Non è necessario dire tanto, è necessario esserci in un certo modo.

2.5 Con quale occhio, e con quale cuore

Ma con quale occhio, e con quale cuore ci si volge verso le parti? Che siano esse le diverse parti di sé, con cui dialogare grazie al Focusing, o le parti che entrano nella stanza della mediazione, è sorprendente e bello vedere come ci siano anche qui molti punti di contatto, diversi aspetti perfettamente speculari.

Una prima, imprescindibile condizione affinché questo incontro con le parti sia possibile – come dentro, così fuori – è il non giudizio. “Così, idealmente, il mediatore dovrebbe riuscire a incontrare i mediati senza giudicarli, senza voler fare qualcosa, senza proiettare nulla su di loro, ed essere soltanto colui che facilita, risveglia le voci interiori. È un compito di grande umiltà che non ha mai termine”. Queste lucide parole della Morineau, oltre ad offrire di nuovo l’occasione per parlare di una virtù così rara quanto preziosa come l’umiltà, sono qui importanti per osservare la centralità dell’assenza di giudizio (più verosimilmente dalla sua sospensione) nel ruolo del mediatore. Si tratta di una impresa tra le più ardue, considerato quanto spesso venga affidata all’esprimere giudizi sul mondo la necessità (così miseramente umana) di avere delle certezze assolute, di poter agire e scegliere nella vita in forza di un concetto superiore e indiscusso di ‘bene’ o ‘male’, ‘giusto’ o ‘sbagliato’. Non è facile, quindi, spogliarsi di questa umana abitudine, non lo è incontrare l’altro ‘senza armi’, e correre il rischio di trovarsi faccia a faccia con le emozioni, ognuno fuori dalla sua inoppugnabile roccaforte. Il mediatore deve “togliersi la testa”, come si dice spesso nel mondo della mediazione, ed è indubbiamente necessario un lungo e profondo lavoro su se stessi, perché ciò divenga poco a poco possibile.

Il non giudizio è condizione imprescindibile, dicevamo, dell’incontro con le parti (dentro di me, e fuori), nella misura in cui solo così sarà possibile che queste si lascino avvicinare e che ne nasca – auspicabilmente – una relazione fatta anche di fiducia. Le parole di Roberto Tecchio sul Focusing portano bene alla luce questo concetto: “Il Focusing è un processo di ascolto e conoscenza di sé fondato sulla capacità di rapportarsi al proprio vissuto con un atteggiamento non giudicante, empatico, fiducioso”. Anche in un processo di focalizzazione, nell’interazione con le parti, è molto importante che queste sentano di potersi fidare, sentano che il dialogo che si sta cercando con loro non è manipolatorio, non parte da assunti secondo i quali, di ciò che si incontra, qualcosa è giudicato bene e qualcosa no. Tutto ciò che emerge, del proprio paesaggio interiore, ha in egual misura diritto di cittadinanza. Il non giudizio nel Focusing è anche condizione essenziale all’interno delle partnerships26 – cui si è già accennato in precedenza – ovvero gli scambi in cui due persone, a turno, focalizzano e si accompagnano vicendevolmente nel processo; leggiamo infatti in Gendlin “il ‘bene comune’ che i partners si scambiano è l’attenzione partecipe e non giudicante che proviene dall’essere umanamente presenti all’esperienza dell’altro”27.

Sostando in un luogo che è fatto di piena umana presenza e di non giudizio, è possibile essere neutrali, laddove con questo non si intende significare un atteggiamento di indifferenza e di distanza. Al contrario, ciò di cui si parla è la possibilità di essere equiprossimi rispetto alle parti che si incontrano, usando qui un termine individuato da Eligio Resta. Non la stessa distanza, quindi, ma la stessa – partecipe, pur rimanendo neutra – vicinanza. Questa caratteristica deve far parte della valigia degli strumenti del mediatore, che, insieme agli altri colleghi, garantisce durante l’incontro che a entrambe le parti venga garantito lo stesso spazio di parola e di ascolto e che nessuna delle due si senta ‘abbandonata’. È in ragione di questo che nel modello umanistico i mediatori che prendono parte all’incontro di mediazione sono tre. Laddove infatti uno di loro percepisca di non riuscire a rimanere equiprossimo, perché ciò che sta incontrando ‘tocca’ particolarmente la sua storia personale, può avere piena fiducia nella presenza degli altri due mediatori e, se lo ritiene opportuno, può scegliere di rimanere in silenzio per l’intero incontro.

La stessa equa vicinanza è offerta anche dalla persona che focalizza alle parti di sé che incontra.

Certo, nel corso del processo di focalizzazione è ampiamente possibile che ci si ritrovi maggiormente inclinati verso una parte, anziché un’altra. Questo accade perché, molto comprensibilmente, ciascuno ha lati di sé che ama meno, e che tutto sommato preferirebbe non ci fossero. Ciò che il Focusing rende possibile è osservare con consapevolezza anche i momenti in cui siamo inclinati verso una o un’altra parte e, nel fare ciò, trovare uno spazio al proprio interno in cui è possibile vedere tutto ciò che è presente in un certo momento, senza identificarsi completamente con nessuno di questi aspetti e rimanendone perciò al centro.

Esattamente come nella mediazione, le parti che si incontrano chiedono di essere viste, riconosciute nei loro bisogni e affinché ciò sia possibile, come è stato già più volte detto in queste pagine, non serve fare molto. Nel Focusing, si possono rivolgere poche, semplici parole ad una parte che chiede attenzione, che spesso si manifesta attraverso una qualche forma di disagio nel corpo. Le si può rivolgere anche solo un saluto, che comunichi accoglienza: “Ciao, ti sento. Sento come ti senti”. Una lieve sorpresa potrà nascere dall’osservare che quella certa tensione potrà già lievemente ammorbidirsi grazie a quelle parole di saluto, messaggere di accettazione.

“Il curioso paradosso è che quando mi accetto per come sono, allora posso cambiare”28, dice Rogers. E lo è davvero, un curioso e stupefacente paradosso.

Questa accettazione passa anche per un’altra enorme constatazione, di fronte alla quale non si può fare altro che rivolgere uno sguardo amorevole all’‘imperfetta’ natura umana. La constatazione, cioè, che in ogni persona esistono luci e ombre, che il ‘male’ appartiene a ciascuno di noi, ciascuno di noi ne fa ampiamente esperienza nel corso della vita, subendolo o agendolo. Riconciliarsi con una simile considerazione, fare pace con le proprie ombre, può avere un grande potere liberante e condurre verso una propria personale evoluzione. “Solo chi incontra il male si modifica in maniera tale da portare un ampliamento di coscienza”, secondo quanto dice Erica Poli, psichiatra e psicoterapueta, nel suo interessante intervento “Il diavolo necessario”29.

3. Lo specchio e il rispecchiamento

L’essere umano è una locanda,
ogni mattina arriva qualcuno di nuovo.
Una gioia, una depressione, una meschinità,
qualche momento di consapevolezza arriva di tanto in tanto,
come un visitatore inatteso.
Dai il benvenuto a tutti, intrattienili tutti!
Anche se è una folla di dispiaceri
che devasta violenta la casa
spogliandola di tutto il mobilio,
lo stesso, tratta ogni ospite con onore:
potrebbe darsi che ti stia liberando
in vista di nuovi piaceri.
Ai pensieri tetri, alla vergogna, alla malizia,
vai incontro sulla porta ridendo,
e invitali a entrare.
Sii grato a chiunque si presenti
perché è una guida
che ti è stata mandata da lontano.

La locanda (Gialāl ad-Dīn Rūmī)

3.1 Lo ‘strumento-chiave’ del mediatore: lo specchio

Dopo aver avviato questa danza leggera e curiosa e aver incontrato parole e concetti che con grande, reciproca familiarità avvicinano la Mediazione Umanistica al Focusing, può essere interessante far procedere la riflessione all’interno di uno spazio più concreto. Attraverso l’uso di quali strumenti si sostanzia ciò che è stato fin qui descritto? In che modo, quindi, in mediazione e nel Focusing, si offre concretamente quel tipo di ascolto, quel tipo di presenza, quella accoglienza che vive nel non giudizio e in una equa-prossimità? Non sembra inatteso, a questo punto del discorrere, trovare anche qui delle corrispondenze (anche terminologiche!) piuttosto esatte tra i due mondi. E per quanto il trovarle sia ora meno sorprendente, non smette affatto di essere entusiasmante.

“Lo strumento del mediatore è lo specchio: il mediatore si pone, infatti, quale specchio che accoglie le emozioni dei protagonisti per rifletterle. Per fare ciò, egli ha bisogno di uno specchio pulito”30. Grazie a queste parole di Jacqueline Morineau è possibile entrare subito nel cuore di quello che fa il mediatore, e di quello che non fa. Come è stato accennato nel primo capitolo, il mediatore non interpreta, non giudica, non cerca di capire né di risolvere. Non dà consigli, non cerca di condurre le parti verso una strada di riconciliazione e perdono, a tutti i costi. Il mediatore è uno specchio, e come tale riflette, ovvero si limita a cogliere le emozioni che le parti esprimono nella loro narrazione e le restituisce loro immediatamente. “Io sento fatica”: la semplicità di una simile affermazione – che non vuole certo essere l’espressione di una certezza – ci mostra un parlare non invadente e dunque la volontà del mediatore di offrire all’altro un’occasione per esprimersi, se lo vuole. Lo specchio in mediazione – detto anche sentito – è prima di ogni altra cosa un modo per dare parola alle parti, per dare loro modo di andare forse lievemente più in profondità nell’ascolto delle loro emozioni e nella consapevolezza di ciò che li muove internamente. Il sentito è un qualcosa che apre, o meglio che vuole aprire un ulteriore spazio di incontro e di confronto, cercando di creare un luogo possibile, uno spazio in cui la sfera emozionale della persona possa essere vista, riconosciuta, possa essere addirittura nominata. Non è molto frequente che questo sia possibile, altrove. Non lo è, in genere, dire certe parole, nominare certe emozioni. È in questo che vive – a mio parere – uno degli aspetti più dirompenti della Mediazione Umanistica, quello che le conferisce una forza decisamente rivoluzionaria. L’aspetto per il quale l’incontro con la mediazione è a tutti gli effetti uno di quegli incontri che cambiano la vita.

Accade, in questo senso, che la mediazione diventi un luogo di potente verità, e questo può davvero arrivare ad abbattere muri e difese costruiti nel corso di anni, perché nell’incontro con la verità di ciò che è ognuno è disarmato, ognuno è nudo. Lo specchio quindi, ‘strumento-chiave’ per chi lavora con la mediazione umanistica31, è abitato anche dal coraggio di pronunciare alcune parole, alcune emozioni, e nel pronunciarle renderle fisicamente presenti nella stanza. Perché una parola un conto è pensarla, ma un altro conto certo è dirla, riempirla di suono, darle consistenza. Alcune parole più di altre hanno un peso, alcune emozioni più di altre sono avverse a chi le sta provando ed è quindi così faticoso provare a incontrarle.

Il mediatore fa proprio questo usando gli specchi, prova cioè ad accompagnare le parti nell’ascolto delle loro emozioni, con coraggio sì, ma sempre con grande umiltà, dato che “il mediatore non si appropria mai dello statuto del saggio poiché non è affatto un essere fuori dalla norma, eccezionale”32 . Ciò che può fare, invece, è “imparare a sviluppare un rapporto empatico, imparare cioè a sentire ciò che l’altro sente, senza assumere una posizione favorevole o contraria, di simpatia o di antipatia, rispetto al sentire dell’altro”33.

E proseguendo, dando parola come sopra alla Morineau “(Il mediatore) ha bisogno di uno specchio pulito. E per giungere a un simile risultato, (…) deve imparare a tollerare il silenzio di cui, spesso, egli ha molta paura. Noi riempiamo la nostra vita di rumori, di gesti, di azioni, perché il vuoto ci fa orrore”34. Queste frasi offrono l’occasione anche per dare spazio, in questa riflessione, alla parola silenzio.

Silenzio, che qui non è mera assenza di suono, ma in mediazione anche e soprattutto un “ bene da custodire”35, perché “si rende presenza in quel che siamo e in quel che siamo capaci di essere; si presenta come l’altra faccia della parola, del linguaggio ed esige di essere «educato»”36. Un qualcosa che “si apprende”, appunto, dice la Morineau, aggiungendo poco più avanti “Il silenzio è un linguaggio dell’anima. (…) Quando il silenzio ritrova il proprio spazio, può esserci il vuoto.

Vuoto di accoglimento, in quanto spazio di potenzialità e di libertà”37. Se si riesce a tacere, quindi, “rimane tutto lo spazio per accogliere la persona che ci sta di fronte”38.

3.2 Il rispecchiamento nel Focusing

Per potere ora procedere e dare spazio alla descrizione di un altro ‘strumento’ centrale, stavolta nell’ambito del Focusing, è necessario fornire alcuni elementi relativi ai cosiddetti Scambi alla Pari di Focusing (o Partnerships, quando una coppia la esercita con continuità).

Come spiegano chiaramente le parole di Roberto Tecchio, nei contenuti del suo ricco sito internet39 “Il Focusing, in quanto pratica di consapevolezza, si esercita anzitutto da soli, in piena autonomia. Ciò che caratterizza tale pratica, esaltandola, è che si può attuare in presenza di un compagno nei cosiddetti Scambi alla Pari, tipici momenti strutturati nei quali in coppia, a turno, ciascuno offre il proprio tempo ad un altro essere umano che intende coltivare il rapporto d’amicizia con sé stesso”. E ancora, proseguendo “Per me, focalizzare vuol dire ritagliarmi uno spazio protetto dove posso ascoltarmi da solo o con accanto qualcuno che ha liberamente scelto di essere testimone partecipe e rispettoso di quell’appuntamento intimo tra me e me che resta invisibile ai suoi occhi”, infatti “Nell’incontro alla pari, strutturato da poche, semplici regole, nel quale ognuno è guida responsabile del proprio processo40 e al contempo base sicura per l’autorivelazione dell’altro, si può sperimentare qualcosa di raro e di fortemente salutare: abbandonarsi e svelarsi a sé stessi in presenza di una persona che sa ascoltare senza invadere”.

Ascoltare senza invadere, offrendo all’altro una piena Presenza: un dono di cui siamo tutti capaci, semplicemente in quanto essere umani. Ritorna in queste righe quel “fatto molto grande”41 di cui parla Gendlin, con gioioso stupore, e di cui si è già trattato in precedenza.

Facendo cosa, esattamente, la persona che accompagna chi focalizza offre la sua presenza e il suo gentile accompagnamento? Lo strumento che, soprattutto, rende possibile ciò è il rispecchiamento, ovvero il rimandare alla persona che sta focalizzando determinate parole, determinati simboli che questa ha scelto per definire la ‘sensazione sentita’ con cui è in contatto, e che vengono riconosciuti come “elementi significativi ai fine del processo di focusing.

Si tratta di una sensibilità (cosa rispecchiare) e di una capacità (quando e come) che si sviluppano necessariamente col tempo”42. Nel fare questo la persona che accompagna offre a chi sta focalizzando l’opportunità di rallentare il ritmo del suo processo – se lo vuole – e soffermarsi a cogliere in maniera ancora più sottile come il corpo risponde all’enunciazione ripetuta di un certo termine (cioè al rispecchiamento), potendo così anche verificare se il simbolo scelto per descrivere ciò che sta provando è precisamente ciò che può esprimere verbalmente la sensazione, o se può essere migliorato.

3.3 Una prossimità non solo lessicale

Ecco quindi che, dopo aver fornito alcuni elementi necessari per guardare più da vicino questi due strumenti – lo specchio, nella Mediazione Umanistica e il rispecchiamento nel Focusing – diviene adesso molto naturale metterli in relazione e coglierne i punti di contatto, che vanno ben oltre questa certa vicinanza lessicale.

L’aspetto da cui partire è fatto della potenza di cui sono fatte le parole. Così come nell’incontro di mediazione, anche in una focalizzazione nominare a voce alta alcuni significati, anche quelli più scomodi, anche quelli più indecenti, apre uno squarcio nella realtà in cui si è messi faccia a faccia con la verità delle cose. Se posso pronunciarlo, se posso dargli una consistenza fisica, anche il lato più oscuro (l’emozione più vile) riceve un posto, ed è forte il cambiamento che si può osservare in un ambiente l’istante dopo in cui questo è stato riempito del suono di una qualche parola impronunciabile43. Si potrebbe dire che la parola, in questi casi, si fa luce, “perché quando la luce ha illuminato l’oscuro oggetto del terrore, esso perde ogni potere e diviene solo un frammento dell’esperienza”44.

Come non esiste in mediazione un sentito che si possa definire ‘sbagliato’, così anche nel Focusing non ci sono rispecchiamenti errati. Chi accompagna (includendo in questa definizione ora anche il mediatore) non può sbagliare, e ciò semplicemente perché non ha alcun potere né alcun mandato cui attenersi. Un sentito non preciso, o un rispecchiamento ‘fuori tempo’, ad esempio, costituiscono comunque un’opportunità offerta all’altra persona di entrare più profondamente nel suo sentire e nell’ascolto di sé. In altre parole, non possono in alcun modo essere da ostacolo al processo che si sta svolgendo, nella mediazione come nella focalizzazione, perché in entrambi i casi sono occasione per restituire la parola all’altro, sono offerti in dono, senza alcuna pretesa.

Anche nel Focusing, inoltre, come nella mediazione, si incontra il silenzio, e lo si può fare senza paura. Chi accompagna la persona che sta focalizzando, può tranquillamente scegliere di farlo in silenzio assoluto, se lo ritiene, ma offrendo comunque una vicinanza attenta e partecipata, che sarà di certo avvertita dall’altra persona come tale, senza bisogno alcuno di parole. Chi focalizza, dal canto suo, può disporre liberamente del suo tempo e decidere anche di rimanere completamente in silenzio nel corso della sua focalizzazione, o avere bisogni di lunghi istanti quieti per poter sentire meglio ciò che avviene dentro. Il silenzio è pieno – quindi – anche qui, di senso, e in quanto tale non è mai pesante, non è difficile da sostenere.

Un ulteriore elemento di contatto tra gli strumenti su cui si sta riflettendo è dato dalla necessità di rispettare con precisione la scelta dei termini usati dall’altro (chi sta focalizzando, se si accompagna o le parti nella mediazione). Come per chi pratica il Focusing, infatti, anche per il mediatore assume particolare rilievo la cura con cui si ricevono, custodiscono per un attimo, e poi ‘restituiscono’ le parole che vengono pronunciate. Nella cosiddetta sintesi, ad esempio, cioè il particolare momento dell’inizio di un incontro di mediazione che consiste nel riportare alle parti ciò che è stato da loro narrato in una prima fase, il mediatore avrà saputo cogliere con la sua sensibilità le parole (o le immagini, le metafore…) che più di altre sono portatrici di significato, quei termini che, come una luce da seguire, sembrano già aprire uno spazio all’interno del mondo emotivo di chi sta parlando. E solo questi dovranno essere riportati, non altri. Né sinonimi, perifrasi ricercate o tantomeno interpretazioni. Si tratta di un agire fatto in primis di rispetto (di delicatezza, di cura) e poi – niente affatto di meno – di fiducia.

Ecco quindi che questa danza in cui avvicinarci, morbidamente e senza fretta, ora alla Mediazione, ora al Focusing, inizia a muoversi attraverso tanti passi, che non vogliono essere in alcuna maniera conclusioni a cui giungere o affermazioni risolute, ma al contrario suggestioni, esattamente solo dei punti di partenza.

4. L’incontro di mediazione e le partnerships di Focusing: uno spazio ‘sacro’

Occorre sempre un interlocutore per far entrare nella nostra trama narrativa
il senso di chi siamo.
Adolfo Ceretti

4.1 Uno spazio di confidenzialità

Riprendendo questo lieve ondeggiare, alla scoperta di quei luoghi in cui la Mediazione e il Focusing possono convivere, e osservarsi a vicenda con curiosità, emerge con forza dirompente una parola, che ha però quasi bisogno di essere pronunciata a bassa voce, tale è il suo peso e la sua grandezza.

Durante l’incontro di mediazione – nella stanza della mediazione – così come nel corso di uno scambio alla pari di Focusing, avviene qualcosa di molto speciale, avviene un qualcosa che ha qualcosa di sacro. C’è questo, nell’inviolabile e delicatissimo momento in cui ci si pone di fronte, o meglio accanto, all’umanità dell’altro, con tutto il rispetto e la gentilezza che un simile momento può richiedere, nella consapevolezza che quando incontro l’altro, incontro l’incommensurabile, come direbbe Adolfo Ceretti. Meraviglia e gratitudine possono scaturire da questi incontri: lo stupore di intravedere in ciascuno spazi di ombre drammaticamente vulnerabili, e scenari di luce in cui affermarsi con determinazione, e poi l’essere grati, profondamente, per aver avuto l’onore di accedere a questi luoghi. Sono parole che molto naturalmente riecheggiano tanto nella Mediazione quanto nel Focusing e appare quindi utile, a questo punto, scendere ancora un poco in profondità per osservare cosa contribuisce a rendere questi spazi di incontro così sacri, quali delicatezze rendono possibile un aprirsi così stupefacente.

Molta attenzione e cura viene dedicata al disegnare la cornice in cui avviene un incontro di Mediazione e uno scambio di Focusing, ed è possibile individuare in questo diversi elementi molto vicini, che poggiano sugli stessi, universali valori.

In primo luogo, come è già stato possibile esplicitare altre volte in queste pagine, si tratta di uno spazio (di parola e di ascolto, in entrambi i casi) alla cui base va posto un incondizionato e profondo rispetto, che si è visto essere fatto di umiltà, di una presenza piena e accogliente, di un ascolto aperto e mai giudicante, di una ben radicata fiducia nell’essere umano e nei suoi sorprendenti doni. Uno spazio in cui trova posto anche il silenzio, che non pesa e non è mai come un vuoto da riempire. Rispetto e fiducia, certo, hanno bisogno per nascere e crescere di nutrirsi di rassicurazione e protezione, hanno bisogno di muoversi in un luogo in cui sia possibile, gradualmente, deporre le armi e abbassare le difese. Questo è possibile in primo luogo garantendo una assoluta confidenzialità rispetto ai contenuti che potranno emergere nell’incontro.

Per quanto riguarda la mediazione, di confidenzialità si parla, in questo senso, nel Documento Finale degli Stati Generali sull’Esecuzione Penale, dove viene esplicitato che tale precondizione “implica che l’incontro di mediazione sia protetto ed impedita qualsiasi forma di diffusione all’esterno dei suoi contenuti”45. Ancora una volta, interessante la presenza speculare dello stesso, imprescindibile elemento anche nel Focusing, poiché – come leggiamo in Roberto Tecchio – uno dei principi alla base degli scambi alla pari è proprio quello della massima riservatezza46. Quindi, dice Tecchio riprendendo le parole di Ann Weiser “Mai e poi mai fare riferimento a quanto comunicato dal partner che ha focalizzato dopo che la sessione è terminata, a meno che non lo faccia il partner stesso”. Non avere cura di questo principio “può compromettere la sicurezza di una partnership per entrambe le parti. E la tentazione di farlo è così forte! Qui si richiedono la massima lucidità e la massima attenzione (…). Siamo mille volte più abituati a rapporti sociali che non prevedono il focusing rispetto a quelli che lo prevedono. Che male può fare? Risposta: molto”47, spiega Ann Weiser, con parole che invitano intensamente alla delicatezza.

4.2 Uno spazio di fiducia e responsabilità

Di cosa si sostanzia quel rispetto profondo che, è stato visto, si pone come necessaria e solida base su cui costruire un possibile incontro con l’altro? Infinite sono le sfumature di significato di un termine così denso di senso, infiniti sono i possibili volti che questo valore può assumere per ciascuno, in base certo alla sua storia e al suo sentire. Tra le tante possibili declinazioni di ciò che è – e non è – rispetto, sembra utile in questo momento fare luce su due elementi in particolare, che come delle ancore possono offrire al navigare di questa riflessione un solido attracco. Il rispetto esiste in quel luogo in cui si sospende il giudizio, non si interpreta ma semplicemente si accoglie ciò che è, così com’è. Dice Gendlin, su questo “Non introducete mai argomenti che non siano stati espressi dall’interlocutore. Non intromettete mai le vostre interpretazioni. Non aggiungete mai le vostre idee”48.

Ecco, questo è possibile nel momento in cui si fa spazio, dentro, a un sentire quieto e semplice, aperto e libero, di inestimabile valore eppure gratuito. Quel sentire, cioè, che è fatto di fiducia: profonda, incondizionata, che affonda le sue radici in un terreno più vasto e più fecondo dei singoli accadimenti della vita. Una fiducia nell’essere umano, nella ricchezza delle sue risorse e

nelle sue possibilità di cambiamento, perché – come si dice spesso in mediazione – “noi siamo migliori delle nostre peggiori azioni”.

Ma allora, se al centro dell’incontro con l’altro (nella mediazione, come nel Focusing) viene posta questa fiducia, delicatamente costruita e rispettosamente difesa, ecco che può emergere con decisione un altro elemento che molto profondamente unisce i due universi qui in relazione, ovvero la responsabilità. È necessario anche qui declinare un particolare aspetto di questo termine, tra le numerose accezioni che può assumere per ciascuno, e dare attenzione a cosa si vuole intendere esattamente in questo ragionamento.

Sia per il mediatore che per la persona che pratica il Focusing (e negli scambi alla pari, certamente) c’è – sì, in una certa maniera – una responsabilità, nella misura in cui andare verso l’altro è sempre un movimento delicatissimo, enormemente ricco e talora complesso. Si è responsabili, quindi, della propria accurata e approfondita formazione, del proprio continuo aggiornamento, ma anche di un costante lavoro su di sé, che sia fatto sempre di nuovi interrogativi e (forse) mai di indissolubili certezze. Ma andando oltre questo imprescindibile passaggio, ciò che accade poi concretamente in un incontro di mediazione e in una focalizzazione non appartiene mai al mediatore e a chi accompagna il processo. Non si ha, rispetto a ciò che accade, nessuna responsabilità. Non si è responsabili, in mediazione, di ciò che accadrà dopo l’incontro o del modo in cui potrà trasformarsi o meno la relazione tra le parti. Il ‘risultato’ – per quanto possa sembrare improprio questo termine – non appartiene ai mediatori, che possono quindi decisamente spogliare il loro operato di ogni veste salvifica e di ogni desiderio di riconciliazione. La responsabilità, così come la scelta – assolutamente volontaria e libera – di intraprendere un percorso di giustizia riparativa non ha niente a che fare con il ruolo del mediatore, fintanto che questo si è occupato e continua a occuparsi della sua formazione e del fornire una corretta informazione su cosa è e cosa non è mediazione. Anche nel Focusing, in uno scambio alla pari la persona che sta focalizzando è interamente responsabile del proprio processo e del proprio tempo, e aggiunge Roberto Tecchio che “durante il proprio turno ciascuno fa quello che vuole e come vuole (in genere si focalizza perché è una cosa meravigliosa ed utilissima, ma si potrebbe benissimo fare altro)”49. Esattamente come dice Gendlin, su questo “Nella mia metà del tempo (…) potrei dire tutto quello che so su qualcosa o solo un po’. Potrei parlare di sentimenti profondi senza farvi sapere a quale situazione si riferiscono. Potrei focalizzare silenziosamente in parte o per tutto il tempo e volere solo la vostra attenzione tranquilla”50.

Avere una chiara cognizione di ciò, quindi, nella Mediazione come nel Focusing, ha a che fare ancora una volta con la pregiata dote dell’umiltà, e poggia su un morbido terreno di fiducia.

Esperienze, con uno sguardo diverso

Questo spazio si distanzia lievemente, e solo in apparenza, dalla riflessione condotta sino a questo punto. Ne rappresenta in parte l’origine, nondimeno ha senso dirle qui, queste cose, quasi a testimonianza di come le osservazioni raccolte in queste pagine siano state generate da piccole e rapide intuizioni, stralci di esperienze viste con uno sguardo diverso. È uno spazio di narrazione, libera e personale, di due momenti in cui ho sentito la Mediazione e il Focusing sfiorarsi e in cui ho percepito avrebbero potuto contattarsi.

Quella luce negli occhi, alla parola “futuro”

W. entra nella stanza in cui si sarebbe svolto il primo colloquio con i mediatori. Siamo in carcere. È giovane, appare alquanto emozionato. Lo siamo anche noi. Anche io, quantomeno, perché sono le mie primissime esperienze di incontro diretto con persone che vogliono accedere a un percorso di Giustizia riparativa. Sono aperta all’ascolto e molto attenta a rimanere centrata, a non lasciarmi muovere eccessivamente dal mio sentire emotivo personale (c’è in me anche timore, desiderio di ‘fare bene’, lieve senso di inadeguatezza), rimanendo tuttavia molto disponibile proprio a ‘sentire’ tutte le emozioni che sarebbero emerse nell’incontro. Di lì a poco, W. inizia il racconto di una storia che è piena di tanto: colpa, impossibilità di perdonare se stesso, paura, orrore per quanto commesso. Sembra non ci sia possibilità e spazio alcuno, per lui, per immaginare se stesso oltre quei fatti, oltre quel reato. A distanza di anni da quanto accaduto, lui è ancora tutto completamente lì, tutto in quel racconto, tutto in quella colpa. Il colloquio procede dando spazio a questa narrazione, al dolore che contiene, al grande peso che esprime ognuna di quelle parole. Dopo un certo tempo, accade qualcosa di molto sorprendente. Per un attimo, in un attimo, lo sguardo di W. viene attraversato da una luce diversa, l’espressione del volto cambia. La speranza aveva fatto ingresso nella stanza, nel momento in cui il mediatore aveva fatto una domanda molto precisa “Che cosa desideri per il tuo futuro?”. Dopo un momento di sbigottimento, un sorriso leggermente sollevato accompagna le parole “Nessuno mi aveva mai parlato di futuro”. È stato un istante, uno spazio di tempo veramente impercettibile, eppure in maniera quasi tangibile ha cambiato di molto il tono del colloquio, l’intera atmosfera della stanza. Osservo emozionata quanto sta accadendo, ho la sensazione che l’aver pronunciato quelle parole, l’aver dato una consistenza fisica, di suono, al ‘futuro’, abbia davvero messo in movimento qualcosa di molto grande, abbia forse mosso qualcosa dentro la persona con cui stiamo parlando. E quell’aprirsi del suo volto e del suo sguardo mi incoraggia a cogliere la qualità di questo movimento. Spontaneamente, quindi, e un po’ esitante (mi chiedevo se fosse opportuno o meno, eppure qualcosa mi suggeriva di provare) faccio notare a W. quanto sia stato evidente, per un occhio esterno, il cambiamento fisico che è seguito a quella domanda, e che è rimasto percepibile nella sua espressione e nei suoi movimenti mentre rispondeva, parlando dei suoi progetti e dei suoi desideri. Aggiungo a questo anche altro, consapevole di stare usando in quel momento uno strumento non propriamente di un mediatore. Gli dico, cioè, di notare se quella domanda e quella risposta

hanno suscitato una qualche sensazione fisica particolare in lui, se ha percepito come un sollievo da qualche parte nel corpo. “Ecco” gli dico “se hai sentito anche dentro di te una sensazione piacevole, puoi tornare a provarla ogni volta che vuoi, perché è parte di te”. È come un tesoro, volevo dire, cui poter attingere ogni volta che si vuole. Ho continuato a chiedermi se fosse stato opportuno o meno un intervento di questo tipo, e ancora adesso ho dei dubbi sulla sua adeguatezza in quel contesto, eppure so con certezza che quel singolo momento ha aperto in me varie finestre, per così dire, e forse proprio da quel colloquio è sorto il desiderio di provare ad avvicinare e mettere a confronto la Mediazione Umanistica e il Focusing. Pur avendo strumenti specifici e modalità proprie, infatti (come è stato osservato in queste pagine), lì ho iniziato a pensare che ci fossero possibili aspetti di attinenza e contatto tra questi due mondi.

La parola “sola”

Questa seconda esperienza è tratta da uno scambio alla pari di Focusing avvenuto nei mesi del lockdown con la persona che era, in quel momento, la mia partner stabile. C’era sicuramente molto che si muoveva in me in quello strano periodo, in una continua alternanza di stati emotivi che spesso passavano da una sorta di fiduciosa euforia per l’eccezionalità e la straordinarietà di quanto stava accadendo, al più totale senso di annichilimento, di paura, di smarrimento. C’era qualcosa di più, però, di tutto questo. Un’altra emozione era forte in me, ma costantemente ‘tenuta a bada’, evitata. Forse – molto probabilmente – proprio la più difficile da incontrare, la più dolorosa. Anche durante quella focalizzazione, come sempre, cerco di entrare in contatto con le sensazione presenti al momento, porto avanti il processo scegliendo le immagini e i termini che mi sembrano i più precisi per descrivere quanto percepito, e mi poggio fiduciosa sui rispecchiamenti che la mia partner mi sta offrendo nel frattempo. Le parole pronunciate da me, a volte ripetute da lei, riecheggiano nella stanza. Prendono il loro spazio, si vanno a collocare ciascuna in un suo luogo, nell’ambiente. Ma c’è in arrivo una parola che, più potente di altre, piomba come un macigno nel bel mezzo di tutto questo. La più impronunciabile, quella meno amata. D’improvviso, mentre sto focalizzando, una parte di me sente davvero il grande bisogno di farmi sapere che si sente sola. SOLA. Ripeto ad alta voce, lentamente. Sì, è un’affermazione in quel momento piena di dolore, piena di fatica, stanchezza. Rimango ad osservare attenta quanto fosse importante e necessario dirlo, e ad alta voce. È stato proprio come togliersi una maschera, far entrare la verità dentro la stanza. Qualcosa aveva paura che ciò accadesse, comprensibilmente, qualcosa ne aveva poi tratto sollievo. Ma soprattutto – e qui si arriva al punto che volevo sottolineare – il solo fatto di aver pronunciato quella parola, di averle dato una consistenza fisica, ha aperto uno spazio fatto di maggiore autenticità, pur nel dolore. Ho trovato con entusiasmo, da subito, un collegamento tra quanto stava accadendo in quella mia focalizzazione e quanto accade nella mediazione, anche, dove pure – lo abbiamo visto – le parole hanno la loro potenza rivoluzionaria e dove si può trovare spazio per dire ‘l’indicibile’.

Per (non) concludere

Si è arrivati qui, adesso, seguendo questa riflessione che a volte si è mossa su dei morbidi passi di danza, a volte ha occupato un grande spazio circolare, altre volte ha cercato un solido attracco per la sua navigazione. Si è arrivati qui, ma non è questo un luogo in cui fermarsi. Ciò che è stato descritto in queste pagine, come detto in altri punti, è quanto ad oggi scaturito solo da lievi intuizioni e non ha in nessun modo la pretesa di poter essere esaustivo né completo.

L’augurio è, al contrario, che possa evolvere e generare altro, suscitare altre domande, rivelarsi bisognoso di altre parti e di altro spazio.

Poche parole vanno ancora aggiunte, e sono parole piene di gratitudine. Ringrazio di aver avuto l’opportunità di scrivere queste pagine, perché ne avevo bisogno. Immergermi in alcuni testi in questo tempo ha avuto per me un immenso valore, è stato essenziale provare a mettere a fuoco alcuni concetti che sentivo vagare da tempo nella mente, ma che erano privi fino ad ora di una maggiore consistenza. E poi, oltre che utile è stato molto bello, è stato emozionante ed entusiasmante.

Grazie ai momenti di crisi, quelli passati e quelli che arriveranno.

Grazie ai maestri che ho incontrato sino ad ora, fari di luce calda su questa mia strada.

Bibliografia

CERETTI A. con NISIVOCCIA N., Il diavolo mi accarezza i capelli. Diario di un criminologo, il Saggiatore, Milano, 2020

GENDLIN E. T. (1987). Focusing partnerships. The Focusing Folio, 6(2)

GENDLIN E. T., Focusing. Interrogare il corpo per cambiare la psiche, Astrolabio, Roma, 2001

GENDLIN E.T., Focusing Oriented Psychotherapy, The Guilford Press, 1996, cap. 6: The Crucial Bodily Attention. Trad. it. di Letizia Baglioni

HELLINGER B., Il grande conflitto, Urra – Apogeo, Milano, 2005

MANNOZZI G. – LODIGIANI G. A., La giustizia riparativa. Formanti, parole e metodi, G. Giappichelli Editore, Torino, 2017

MOURINEAU J., Lo spirito della mediazione, FrancoAngeli, Milano, 2000

PONTE G., Il Focusing e la saggezza del corpo, Mediterranee, Roma, 2018, pag. 58

POLICARDO, Superare i conflitti, Edizioni Spazio Interiore, Roma, 2014

ROGERS C., Terapia centrata sul cliente, Edizioni La Meridiana, 2007

ROME D. I., La risposta è nel corpo, Astrolabio, Roma, 2014

WEISER A., Il potere dell’ascolto, Documento presentato alla 13° International Focusing ConferenceShannon, Irlanda, Maggio 2001, traduzione di Emmy Parisi

Sitografia

Sito di Roberto Tecchio: https://www.focusinginsideout.it/

The International Focusing Institute: https://focusing.org/

Link per scaricare il testo di Gabriele Policardo “Superare i conflitti”: http://oltre-confine.com/download/superare-i-conflitti.pdf

Link al video di Erica Poli “Il diavolo necessario”: https://www.youtube.com/watch?v=6um1IiSeJto

1J. MORINEAU, Lo spirito della mediazione, FrancoAngeli, Milano, 2000, pp. 23 e 26.

Note

2Ivi, p. 56.

3Si parla di parti, in mediazione, per riferirsi a ciascuna delle persone che può avere avviato o essere parte di un percorso di giustizia riparativa.

4Per una più chiara descrizione della figura del mediatore, cfr. Raccomandazione N° R (99) 19 adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 15 settembre 1999, V.2 “Qualificazione e formazione dei mediatori” 22-23-24.

5E. T. GENDLIN, Focusing. Interrogare il corpo per cambiare la psiche, Astrolabio, Roma, 2001, p. 20.

6Per una più ampia trattazione dei sei passi del Focusing, cfr. capp. 4 e 5 del manuale “Focusing. Interrogare il corpo per cambiare la psiche”, Astrolabio, Roma, 2001.

7Per tutta questa parte, ho fatto riferimento a quanto esposto con chiarezza estrema dal Dott. Roberto Tecchio (Formatore professionista – Focusing Coordinator TIFI) nel suo sito internet: https://www.focusinginsideout.it/.

8J. MORINEAU, Lo spirito della mediazione, FrancoAngeli, Milano, 2000, p. 19.

9E. T. GENDLIN, Focusing. Interrogare il corpo per cambiare la psiche, Astrolabio, Roma, 2001, pp. 20-21.

10Per un’ampia trattazione di questo aspetto della Mediazione Umanistica, cfr. il cap. 5 al punto 3 “Il campo della società” di J. MORINEAU, Lo spirito della mediazione, FrancoAngeli, Milano, 2000, p. 134 e sgg

11G. MANNOZZI – G. A. LODIGIANI, La giustizia riparativa. Formanti, parole e metodi, G. Giappichelli Editore, Torino, 2017, pp. 111 e 115.

12Si tratta delle cosiddette ‘partnerships’ di Focusing, anche dette Scambi alla Pari (SAP) che saranno oggetto del capitolo 3 e 4.

13A. WEISER, Il potere dell’ascolto, Documento presentato alla 13° International Focusing ConferenceShannon, Irlanda, Maggio 2001, traduzione di Emmy Parisi.

14G. MANNOZZI – G. A. LODIGIANI, La giustizia riparativa. Formanti, parole e metodi, G. Giappichelli Editore, Torino, 2017, p. 120.

15R. TECCHIO, L’ascolto esperienziale, Scheda teorico-pratica ad uso laboratoriale.

16E. T. GENDLIN, Le partnerships di focusing, di E.T. Gendlin, Ph.D., Università di Chicago, Gendlin, E.T. (1987). Focusing partnerships. The Focusing Folio, 6(2), 58-78. Traduzione di Maria Emanuela Galanti, Laura Talamoni, Roberto Tecchio.

17Ibidem.

18D. I. ROME, La risposta è nel corpo, Astrolabio, Roma, 2014, p. 125.

19G. MANNOZZI – G. A. LODIGIANI, La giustizia riparativa. Formanti, parole e metodi, G. Giappichelli Editore, Torino, 2017, p. 119.

20In particolare, in questo caso, nelle partnership di Focusing, che verranno descritte nel capitolo 3 e 4.

21A. CERETTI, con N. NISIVOCCIA, Il diavolo mi accarezza i capelli. Diario di un criminologo, il Saggiatore, Milano, 2020, p. 19.

22D. I. ROME, La risposta è nel corpo, Astrolabio, Roma, 2014, p. 125.

23In Gendlin, il felt sense, il concetto che esprime l’originalità e la specificità del Focusing. Cfr: E. T. GENDLIN, Focusing Oriented Psychotherapy, The Guilford Press, 1996, cap. 6: The Crucial Bodily Attention. Trad. it. di Letizia Baglioni.

24Ringrazio Roberto Tecchio per questa affermazione, emersa nel corso della mia formazione come Trainer di Focusing.

25G. PONTE, Il Focusing e la saggezza del corpo, Mediterranee, Roma, 2018, p. 58.

26Le cosiddette ‘partnerships’ di Focusing, anche dette Scambi alla Pari (SAP) saranno oggetto del capitolo 3 e 4.

27E. T. GENDLIN, Le partnerships di focusing, di E.T. Gendlin, Ph.D., Università di Chicago, Gendlin, E.T. (1987). Focusing partnerships. The Focusing Folio, 6(2), 58-78. Traduzione di Maria Emanuela Galanti, Laura Talamoni, Roberto Tecchio.

28Risulta importante qui segnalare che tale affermazione, individuata nel web in questa forma e attribuita a Rogers, è probabilmente una sintesi di quanto da lui affermato in “La terapia centrata sul cliente” (Edizioni La Meridiana, 2007), e precisamente: “Quando qualcuno ti ascolta davvero senza giudicarti, senza cercare di prendersi la responsabilità per te, senza cercare di plasmarti ti senti tremendamente bene… Quando sei stato ascoltato e udito, sei in grado di percepire il tuo mondo in modo nuovo e andare avanti. È sorprendente il modo in cui problemi che sembravano insolubili diventano risolvibili quando qualcuno ascolta”.

29E. F. POLI, Il diavolo necessario, nell’ambito del convegno Voci Dai Mondi (Milano, 26 febbraio 2017). Tema: il diavolo necessario: psichiatria, neuroscienze e codici dell’anima alle prese con la realtà del male.

30J. MORINEAU, Lo spirito della mediazione, FrancoAngeli, Milano, 2000, p. 79.

31Ne parlano in questi termini G. MANNOZZI e G. A. LODIGIANI, a pag. 140 del manuale La giustizia riparativa.

32J. MORINEAU, Lo spirito della mediazione, FrancoAngeli, Milano, 2000, p. 136.

33Ibidem.

34Ivi, p. 79.

35G. MANNOZZI – G. A. LODIGIANI, La giustizia riparativa. Formanti, parole e metodi, G. Giappichelli Editore, Torino, 2017, p. 115.

36Ivi, p. 114.

37J. MORINEAU, Lo spirito della mediazione, FrancoAngeli, Milano, 2000, p. 79.

38Ivi, p. 81.

39focusinginsideout.it – sito internet Dott. Roberto Tecchio.

40Nel capitolo successivo sarà possibile prendere in esame più compiutamente questo concetto di “responsabilità”, in relazione anche alla Mediazione Umanistica.

41E. T. GENDLIN, Le partnerships di focusing, di E.T. Gendlin, Ph.D., Università di Chicago, Gendlin, E.T. (1987). Focusing partnerships. The Focusing Folio, 6(2), 58-78. Traduzione di Maria Emanuela Galanti, Laura Talamoni, Roberto Tecchio.

42R. TECCHIO, L’ascolto esperienziale, Scheda teorico-pratica ad uso laboratoriale.

43In mediazione, si dice che lo spazio dell’incontro può essere anche lo spazio in cui ‘dire l’indicibile’.

44G. POLICARDO, Superare i conflitti, Edizioni Spazio Interiore, Roma, 2014.

45 Stati Generali sull’Esecuzione Penale – Documento Finale; PARTE SESTA: La Giustizia Riparativa, punto 2 “Gli elementi connotativi”. Su questo, cfr. art. 2 della Raccomandazione N° R (99) 19 adottata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 15 settembre 1999, “Mediazione in materia penale”; art. 13 dei Basic principles on the use of restorative justice programmes in criminal matters, ECOSOC Res. 2000/14, U.N. Doc. E/2000/INF/2/Add.2 at 35 (2000); art. 17 CM/Rec(2018)8 “Raccomandazione del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulla giustizia riparativa in materia penale”.

46 “LINEE GUIDA PER SCAMBI ALLA PARI (di focusing e non solo) Ovvero come focalizzare in presenza di un partner che accompagna, e come accompagnare un partner che focalizza”. Testo a cura di Roberto Tecchio.

47A. WEISER, Three Rules for Safety in Focusing Partnerships, adattamento da un articolo comparso in The Focusing Connection newsletter, gennaio 2000. Traduzione di Letizia Baglioni al link: https://focusingresources.com/treregole/

48E. T. GENDLIN, Focusing. Interrogare il corpo per cambiare la psiche, Astrolabio, Roma, 2001, p. 131.

49“LINEE GUIDA PER SCAMBI ALLA PARI (di focusing e non solo) Ovvero come focalizzare in presenza di un partner che accompagna, e come accompagnare un partner che focalizza”. Testo a cura di Roberto Tecchio.

50E. T. GENDLIN, Le partnerships di focusing, di E.T. Gendlin, Ph.D., Università di Chicago, Gendlin, E.T. (1987). Focusing partnerships. The Focusing Folio, 6(2), 58-78. Traduzione di Maria Emanuela Galanti, Laura Talamoni, Roberto Tecchio.