Focusing nella Facilitazione e nelle Arti Sociali: consilienza, esperienze sul campo e prospettive

di Ilaria Olimpico

Ringrazio la mia amica magica Meri
che crede in me
e si emoziona sempre per ogni mia “avventura”.

Consilienza

Mentre approfondivo la mia conoscenza-esperienza del Focusing, continuavo a lavorare come facilitatrice e a essere in contatto con altre persone e altri contesti che si occupano di facilitazione in senso ampio. Quindi, navigando da un contesto all’altro, potevo cogliere le analogie, le differenze e le potenzialità della trasposizione di alcuni elementi del Focusing in altri contesti.

Durante la mia continua ricerca e formazione, esperienza professionale e condivisione in reti di colleghə, ho avuto modo di accedere alla conoscenza di più mappe e metodologie. Questa esposizione alla pluralità mi ha dato la possibilità di individuare quali patterns si ripetono o si contraddicono, quali elementi sempre mi risuonano e percepisco trasversali, e per questo essenziali per una mappa possibile di un personale modello di facilitazione. Una ricerca che non posso non intraprendere, stimolante e, probabilmente, utile per coloro che operano nella complessità, che richiede più strumenti, più linguaggi, più prospettive per essere declinata.

L’affermazione “La mappa non è il territorio” (Alfred Korzybski) riporta consapevolezza profonda in chi sceglie di adoperare una metodologia piuttosto che un’altra, ricordando che: – ciò che si sta utilizzando è solo una mappa possibile, una visione possibile della realtà, – non esiste una sola mappa, anzi vedere diverse mappe della stessa realtà può aprire a insights inaspettati, – la mappa spesso rivela molto più su chi la sta usando piuttosto che sul “territorio mappato”. Che la mappa non fosse il territorio è stata una di quelle rivelazioni apprese non nell’ambito della facilitazione, ma durante l’Università, durante gli studi di Geografia Umana e nella parte dedicata alla cartografia. La mia dispensa cominciava con una citazione di Borges: “Un uomo si propone di disegnare il mondo. Nel corso degli anni popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne, di baie, di vascelli, di isole, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”.

Dunque, la scelta della mappa che uso nella facilitazione rivela le mie premesse (che da implicite diventano esplicite) e la mia visione del mondo. E dunque, la maggiore consapevolezza della mappa porta maggiore consapevolezza, autenticità e chiarezza nel mio lavoro di facilitazione.

La mappa del Focusing (e all’interno del Focusing è possibile anche ritrovare una molteplicità di sottomappe) ha risuonato dentro di me e mi ha affascinato la consilienza con altre mappe già presenti nel mio lavoro, in particolare la spirale del “Work-that-Reconnects” (Lavoro-che-riconnette) ideato dall’eco-filosofa statunitense Joanna Macy, e la teoria per il cambiamento sistemico “Teoria U” concepita dal professor Otto Scharmer del MIT di Boston. La consilienza indica l’aggregazione e la convergenza di conoscenze provenienti da differenti campi del sapere, in questo caso, uso il termine per riferirmi alla convergenza di mappe provenienti da differenti metodologie.

Seguono brevi paragrafi che spiegano brevemente i modelli presi in considerazione, portando in rilievo soprattutto le mappe del processo che si propongono di accompagnare.

Focusing

Il Focusing è una tecnica di ascolto di sé e di consapevolezza sviluppata dal filosofo Eugene Gendlin, collaboratore dello psicologo umanistico Carl Rogers. Il Focusing si basa sull’idea che il corpo abbia una saggezza interiore e una conoscenza implicita a cui poter accedere per “portare avanti la vita” (“carrying life forward”), che può essere concretamente: prendere decisioni, affrontare situazioni difficili, stare accanto a emozioni e sensazioni “opprimenti”, avere chiarezza su una questione personale.

La pratica del Focusing, soprattutto per essere insegnata, si suddivide in 6 passi: 1 fare spazio 2 far emergere il felt sense 3 simbolizzare 4 risuonare 5 porre domande 6 accogliere.

Work-that-Reconnects

Il “Work-that-Reconnects” (WTR) è stato sviluppato dall’attivista statunitense Joanna Macy. Si concentra sulla riconnessione con la natura e sull’azione per affrontare le sfide ambientali e sociali. Attraverso pratiche di consapevolezza, esplorazione emotiva e condivisione di storie, il WTR aiuta le persone a superare la disconnessione, a esprimere il dolore per la crisi ecologica e a trovare il coraggio per la trasformazione.

Il viaggio interiore dell’attivista appare come una spirale di interconnessione con quattro fasi successive o movimenti che si alimentano a vicenda.

Queste quattro fasi sono: 1 aprirsi alla gratitudine, 2 onorare il nostro dolore per il mondo, 3 guardare con occhi nuovi, 4 andare avanti.

Teoria U

La Teoria U è un modello di leadership e di trasformazione personale e organizzativa sviluppato da Otto Scharmer, professore del Massachusetts Institute of Technology (MIT). Questa teoria propone un approccio innovativo per affrontare le sfide complesse, passando da una leadership ego-centrica a una leadership con visione e consapevolezza eco-centrica. La Teoria U accompagna le persone e le aziende nella costruzione di una visione condivisa e verso l’azione concreta per realizzare il “futuro che emerge”.

La Teoria U segue un processo di apprendimento a forma della lettera U e prevede 5 fasi: 1 co-iniziare, 2 co-sentire, 3 presencing (neologismo creato da Otto Scharmer da sensing+presence), 4 co-creare, 5 co-evolvere.

Quanto più sono radicata
Tanto più posso ascendere
Quanto più abito il mio corpo
Tanto più posso contattare la mia anima

TERRA

Così come lo descrive Gendlin nel suo manuale, l’atto interiore del Focusing può essere suddiviso in sei atti o movimenti principali. Esistono altri modi per descrivere il processo del Focusing, i sei passi offrono un modello semplice a cui riferirsi, sapendo che non è una successione lineare, rigida e meccanica, anzi diventa piuttosto una forma a spirale o a frattale, in cui si ricomincia sempre daccapo e da un altro livello e ogni passo contiene tutti i passi insieme.

Nelle mie riflessioni sulla consilienza ho preso in considerazione cinque dei sei passi indicati da Gendlin, omettendo il quinto passo del “porre domande”.

Il primo passo del Focusing è “liberare lo spazio” o “fare spazio” (“clear a space”). Nella facilitazione, questo primo passo può essere associato a due dimensioni: quella intrapersonale (liberare lo spazio in me) e quella gruppale (liberare lo spazio come atto collettivo del gruppo).

“Liberare lo spazio in me” può essere sicuramente un primo passo prima di ogni facilitazione, per predisporsi a un’accettazione, o meglio, accoglienza incondizionata e sincera di ciò che c’è.

Dunque, un liberare lo spazio che mi aiuta a essere presente pienamente nel gruppo, nel qui e ora, mettendo da parte pensieri, preoccupazioni, ciò che è successo prima e ciò che avverrà poi. Questo per me equivale ad aprire lo spazio “in me per il gruppo”. E’ un primo passo ed è anche, considerando il processo come frattale, un allenamento continuo di consapevolezza (attenzione sull’attenzione) durante tutto il tempo della facilitazione di gruppi. Mentre il primo passo per liberare lo spazio è proprio simile a un fare ordine e pulizia, il continuare a mantenere lo spazio “pulito” è più simile a essere consapevoli della propria posizione, del proprio sguardo.

Quando guardo, come guardo? Quando ascolto, come ascolto? I termini che uso sono segnali del punto di vista. La qualità dell’attenzione ha un effetto sulla persona ascoltata.

A volte, nelle esperienze di focusing, mi è capitato che solo questo primo passo abbia preso gran parte del tempo della focalizzazione per poi poter “vedere”, “riflettere” le parti di me che difficilmente avrei percepito in uno spazio “disordinato”. Altre volte, nelle prime focalizzazioni, mi è capitato di dare subito la parola alle parti di me che erano già affollate nello spazio ed ecco che la focalizzazione rischiava di essere “impigliata”, “distratta” dal caos nello spazio non liberato. La dimensione dello spazio è fondamentale e resta come bussola sia durante la focalizzazione, sia durante la facilitazione dei gruppi. L’immagine dello spazio davanti a me in cui posso vedere e sentire le parti di me come osservandole da una distanza che mi permette di disidentificarmi senza estraniarmi, torna utile anche nella facilitazione in un gioco di zoom in e zoom out in cui, se sento che mi sto perdendo nel processo, posso tornare nella posizione di osservatrice compassionevole, fare un passo indietro, fare zoom out, prestare attenzione ai margini.

C’è anche un liberare lo spazio come atto collettivo condiviso con il gruppo. L’immediato rimando al mio lavoro, è sicuramente quello che chiamo “arrivare”, ossia esplicitare che ci diamo un tempo per “arrivare” con corpo e mente, e spirito, al laboratorio, all’incontro, al percorso. Un primo passo con il gruppo, spesso è la condivisione delle intenzioni che prepara il terreno per il processo che verrà e potrebbe coincidere con la “decisione di focalizzare” senza aspettative. C’è una differenza tra i termini “aspettativa”e “intenzione”, la prima riporta a qualcosa che mi aspetto e sembra debba venire dal fuori di me, la seconda ha a che fare con qualcosa che marca ciò che avverrà e dipende dalla mia predisposizione. Per me, questo passaggio coincide con la fase della Teoria U di “co-iniziare”, ossia iniziare insieme tramite una sintonizzazione delle intenzioni attraverso il chiedersi in modo condiviso “cosa mi porta qui?”.

Il primo passo con il gruppo può essere accompagnato con un richiamo alla gratitudine quando si prevede di esplorare con il gruppo una sfida, una difficoltà, un disagio. Come un sommozzatore si prepara a scendere nelle profondità gradualmente e caricandosi di ossigeno, così, ci si prepara a vedere e sentire ciò che potrebbe essere disagevole, ricordandosi delle risorse interne e della propria forza. Iniziare con la gratitudine è l’invito della Spirale del Work-that-Reconnects (WTR)) di Joanna Macy.

Ecco che si sovrappongono le prime fasi di tre metodi/mappe: Fare spazio (Focusing) – Gratitudine (WTR) – Co-iniziare (Teoria U). Nella mia mappa di mappe sovrapposte ho scelto di associare questo primo passo alla Terra, perché sento che fare spazio, condividere l’intenzione, iniziare con gratitudine, sono tutti movimenti di radicamento. Probabilmente, non a caso, anche per le focalizzazioni, nelle sintonizzazioni, spesso si inizia con il sentire i piedi a terra.

Senza titolo

Siamo così.
Con le gambe irrimediabilmente tagliate,
Sentendo la pressione su un livido all’altezza del cuore,
Eppure con le braccia coraggiosamente aperte.

ACQUA

Il secondo passo del Focusing è l’emergere del felt sense, traducibile come la sensazione significativa o il significato sentito. E’ il nocciolo della focalizzazione. Quando si pensa a una determinata situazione o problema, il corpo ha la capacità di restituire in una sensazione significativa la percezione dell’intero problema nella sua globalità. All’inizio la sensazione è indefinita e preverbale, per questo si mette a fuoco per poterla percepire, vedere e sentire fino a trovarne le qualità e darle un nome.

Nella mia mappa di facilitazione dei processi di apprendimento e consapevolezza tramite le arti sociali, il secondo passo consiste nel permettersi di sentire e vedere ciò che c’è e attivare i sensi e l’estetica come canali di conoscenza prima che di espressione. Siamo abituate ad associare le arti come qualcosa di espressivo, in realtà, nel mio lavoro, sono primariamente canali di conoscenza analogica.

Nella Teoria U, il secondo movimento per “scendere nella parte sinistra della U” è chiamato co-sentire. Nella spirale del WTR è il momento di “onorare il dolore”. Ecco che anche in questo caso, può esserci una sovrapposizione di fasi, tutte incentrate sul sentire, e in particolare, su un certo modo di sentire, che è “stare con” ciò che c’è. Nella mia mappa ho scelto di associare questo momento all’acqua, che per me è connessa alle emozioni e alle sensazioni, e come queste, fluisce, cambia forma.

Accanto al Cuore…

Una sagoma di addolorata, prefica in abiti scuri con una cascata di capelli neri e lacrime
incessanti.
A volte è pietrificata a memoria del dolore accanto alla tomba,
A volte si riattiva, si rianima e piange un pianto perpetuo.
Non ha altre reazioni che il pianto.

Una sagoma di donna con i pugni stretti di rabbia e delusione.
A volte si riattiva, prende delle piccole vendette immaginarie.
Si distacca per dispetto.
Una sagoma di donna accucciata, umiliata, vestita degli stracci che gli hanno lanciato addosso.
Se reagisce, si fa’ ancora più piccola e misera. Si allontana. Non vista, non vuole farsi vedere.

Una fanciulla che vorrebbe portare la brezza del perdono e della guarigione.
Si chiede quanto tempo ancora occorra… per il perdono…

FUOCO

Il terzo e quarto passo del Focusing sono simbolizzazione e risonanza. In questi passi, si trova una parola, un’immagine, una frase per simbolizzare il felt sense e si fa la spola tra ciò che si dice, il verbale, e ciò che si sente, il corporeo, per verificare la corrispondenza.

Nella Teoria U potrebbe essere il momento sul fondo della U, il momento del Presencing (neologismo di Otto Scharmer formato da sentire+presenza), in cui ci si ritira in silenzio per far emergere una conoscenza interiore, ci si connette alla sorgente dell’intuizione e della volontà.

Durante la focalizzazione, il silenzio è un elemento prezioso per rivolgere l’attenzione all’interno del corpo e aspettare la conferma che la parola, l’immagine o la metafora corrispondano al felt sense. Il lasciar emergere una conoscenza interiore è parte del lasciar emergere il felt sense che racchiude una conoscenza implicita.

La simbolizzazione con parole, immagini e metafore potrebbe corrispondere, nella Teoria U, al movimento del co-creare, che si trova lungo la parte sinistra della U, e corrisponde a esplorare il futuro facendo. In effetti, la simbolizzazione e la risonanza “portano avanti”, nell’espressione di Gendlin, il felt sense, quindi in qualche modo esplorano il futuro focalizzando!

Nel WTR, questa fase è quella del “guardare con occhi nuovi” e ancora molto vicina, nella mia prospettiva, alla precedente fase “onorare il dolore” perché è proprio facendo spazio al sentire e al sentire specificamente il dolore che si ha la sensazione di guardare con occhi nuovi. E’ uno sguardo nuovo perché è uno sguardo con altre consapevolezze.

Nella mia esperienza di facilitazione è il momento di creare insieme, usando la simbolizzazione tramite diversi tipi di linguaggio; visuale, corporeo, poetico e passando da un linguaggio all’altro.

In questo passaggio, trovo ci sia una premessa condivisa sulla creatività. Spesso la creatività è associata ai colori accesi; se si fa una ricerca ad esempio su “google images” cercando “creatività”, la maggior parte delle immagini sono relative a pennelli e acquerelli di tinte accese, mani colorate di bambini, teste illuminate. Da molto tempo, credo che la creatività sia altrimenti qualcosa che nasce nell’oscurità, nei momenti di difficoltà. E’ come il lotus che ha bisogno di fango scuro per la sua meravigliosa fioritura. Anche nel Focusing, credo che la creatività sia vista come intuizione, come qualcosa che mette in dialogo conscio e inconscio, analogico e razionale, simbolico e cognitivo, come qualcosa che nasce nel “disagio”, lo trasforma e porta verso il benessere.

Questa fase per me è associata al Fuoco, perché è il momento delle trasformazioni, ed è il momento in cui si può accedere a qualcosa di interno che arde, è vivo, vitale, dinamico, capace di trasformarsi. E’ anche una sorta di “prova del fuoco” che richiede coraggio. In tutti e tre i metodi, in effetti, viene fatto appello al coraggio. Nel Focusing, spesso la simbolizzazione del felt sense richiede il coraggio di lasciar svelare il margine vago, lasciar dischiudere il significato implicito, sciogliere (spesso in lacrime) ciò che era rimasto congelato. Nella Teoria U, il viaggio a forma di U comprende anche altri tre passaggi nella discesa sul fondo della U: 1 aprire la mente e quindi sospendere il giudizio per aprire nuovi occhi, 2 aprire il cuore e quindi reindirizzare il cinismo e aprirsi alla compassione, 3 aprire la volontà e quindi lasciare andare la paura e aprirsi al coraggio. Nelle definizioni del WTR rientra spesso il coraggio, ad esempio si può dire che il WTR opera per creare motivazione, creatività, coraggio e solidarietà per affrontare la transizione verso una nuova cultura umana che sostiene la vita. La citazione a me più cara di Joanna Macy è: “cammina nella vita coraggiosamente, con un cuore rotto, aperto”.

E dentro,
in fondo, in fondo,
ho visto
una cascata di pianto
a lungo ghiacciata.

ARIA

L’ultimo passo del Focusing è Accogliere. Gendlin e Ann Weiser usano la metafora di “aria fresca” per descrivere la sensazione di sollievo che si riceve dopo aver focalizzato. Ann Weiser invita anche a preparare uno spazio per il nuovo che verrà (Holding a space for something new to come). Gendlin ha enfatizzato la necessità di riportare il Focusing in Azione, quasi a suggerire un settimo passo (alcuni trainers in Israele hanno modellizzato un settimo passo detto appunto Action Step Focusing on the Go). Nella Teoria U si continua a risalire nella parte sinistra della U per co-evolvere, intendendo di portare il “nuovo” emerso in pratiche. Nel WTR è la parte della spirale che va verso l’esterno, è l’invito ad andare avanti.

Nella mia facilitazione corrisponde al cerchio di condivisione sulla valutazione del processo e sugli apprendimenti da portare con sé. Nella mia mappa ho associato questa fase all’elemento Aria, sia per l’espressione circa l’aria fresca portata dalla nuova consapevolezza, sia per il movimento verso l’esterno, il movimento dell’aria che circola.

Esperienze sul campo

L’approccio Focusing si è manifestato soprattutto in concomitanza dell’uso dell’esercizio dello stuck del Social Presencing Theatre (SPT). Il linguaggio della disidentificazione o linguaggio del Sé in Presenza (come lo definisce Ann Weiser Cornell) ha contribuito a una riflessione più profonda sulle pratiche di storytelling come pratiche di consapevolezza.

Focusing e stuck del Social Presencing Theatre (SPT)

Molte sono le analogie di premesse tra il Focusing e l’esercizio dello stuck del SPT nato nella cornice della Teoria U. L’esercizio dello stuck, ossia del blocco, è una pratica per entrare nella saggezza del corpo al fine di accedere a delle intuizioni utili nelle situazioni in cui si sente un “blocco”.

Ho individuato alcune premesse che condividono SPT e Focusing:

  • La saggezza del corpo. Il corpo sa in un modo diverso dalla mente razionale, ha un’intelligenza sensoriale.
  • La visione della persona come “processo”, e la fiducia nella capacità della persona di portare avanti la propria evoluzione.
  • L’approccio ad avvertire ciò che si vive come “disagio” o “malessere” come potenziale per un modo più salutare di essere. Credo che la predisposizione per la “naturale” capacità di focalizzare abbia a che fare con una certa predisposizione di fiducia nel processo della vita. La predisposizione di fiducia nella vita mi richiama il concetto di salutogenesi di Aaron Antonovsky, per cui la salute non è l’assenza di malattia/disagio/difficoltà, salute e malattia non sono visti come poli opposti ma sono in un continuum salute-malattia in cui ciascuna persona si può collocare in un dato momento della sua vita. Ciò significa che, in qualsiasi punto del continuum una persona si trovi, potrà disporre sempre di risorse e opportunità per spostarsi verso il polo della salute. Le persone che sono natural focusers credo abbiano questa particolare predisposizione per trovare risorse che vanno verso la salute anche nelle situazioni più sfidanti. Hanno il coraggio di “stare con”, sono persone disposte a stare nel “non conoscere” e nell’ancora vago”, non sono infastidite dal “margine confuso” ma riescono a essere fiduciose abbastanza e coraggiose per ascoltarlo.
  • L’invito a saper “stare con” i margini, il non-conosciuto-ancora e l’implicito. Arawana Hayashi (fondatrice del SPT) invita le persone a restare nella scultura dello stuck e in quello che non sanno ancora per il tempo necessario affinché emerga dal corpo stesso un movimento autentico che possa portare a una scultura successiva. Ann Weiser Cornell, un’autorità internazionalmente riconosciuta nel mondo del Focusing, invita a restare con la sensazione del felt sense, inizialmente indefinita (“Staying in contact with the unclear edge. – Stare in contatto con il margine vago”). L’invito a “stare con” necessita il lasciar andare la voglia di risolvere subito il problema, e anzi, considerare “il problema”, quindi la sensazione significativa talvolta disagevole, e lo stuck, come fonte di scoperta e quindi di apprendimento. “I would wish for people that they can trust their own stuck places, their own breakdown places or not knowing places, enough to listen into that, for whatever wisdom or insight or sense of knowing comes out of that. – Mi auguro per le persone che possano avere sufficientemente fiducia dei loro luoghi di blocco, fallimento, incertezza, per ascoltarli, per qualsiasi saggezza o intuizione o senso di conoscenza che possa venirne fuori. (frasi tratte dal video “Stuck Arawana Hayashi”).
  • Shift. Il movimento del/nel corpo come uno shift di consapevolezza, che avviene nella sensazione (Focusing), o nella postura (SPT) e di rimando, potenzialmente, a livello cognitivo. Lo shift, in entrambe le mie esperienze personali di trasformazione, nello stuck così come nella focalizzazione, è caratterizzato da un cambio di qualità della percezione dello spazio. Nel Focusing, il felt sense relativo alla percezione di disagio o difficoltà mi ha rimandato a qualità come: stretto, costretto, pesante, schiacciato, oppresso. Tutte qualità che hanno in comune la mancanza di spazio. Nel momento in cui l’ascolto scioglie e trasforma il felt sense in qualcos’altro, le qualità sono diventate: aperto, leggero, espanso. Tutte qualità che hanno in comune l’ampliamento dello spazio. Quando c’è movimento, o meglio, subito prima che ci sia il movimento, si ha la meravigliosa esperienza del dispiegamento dello spazio che sembra totalmente ripiegato e claustrofobico prima, e poi la confortante sensazione che “c’è spazio”, fuori e dentro di noi: spazio come spazio di possibilità. Nel Social Presencing Theatre (SPT), il corpo nell’esercizio di stuck/blocco può essere percepito come “sottovuoto” finché l’ascolto del felt sense dà l’impulso a un movimento e questo impulso “apre lo spazio”, fa entrare aria nel “sottovuoto” che dilata lo spazio intorno e dentro e diventa possibile il cambiamento. Il corpo in movimento crea spazio di possibilità. Lo spazio crea possibilità di movimento per il corpo.

Vi vedo, parti di me
A sinistra avanza e prende spazio l’una,
stanca e arrabbiata,
che dice forte: “No!”.

Tra ripicca e affermazione,
dignità e affronto.

A destra riposa e attende l’altra,
sognante e sorridente,
che in un sussurro di eccitazione trattenuta,
dice: “Sì, sì!”.

Al centro, nella gola, un orologio segna il tempo della scelta.

Lei ascolta, dal centro e dai margini,
guarda con compassione l’una e l’altra,
e l’altra in mezzo ancora.

Linguaggio del Sé-in-Presenza e pratiche di storytelling

“La differenza (tra successi e insuccessi in terapia) non consiste nei diversi modelli terapeutici e nemmeno in ciò che viene raccontato dai pazienti bensì nel modo in cui essi si esprimono” scrive Gendlin nel suo manuale.

Un certo modo di narrare ha a che fare con l’uso di parole ancorate a sensazioni significative.

Piuttosto che perdersi in discorsi già ripetuti tante volte, se si è disponibili a esporsi al “non ancora conosciuto”, si è capaci di rallentare la narrazione di ciò che si prova per agganciare autenticamente la parola ancorata al sentito corporeo. E’ il processo che, nei 6 passi del Focusing di Gendlin, corrisponde a “sentire il felt sense, simbolizzare e risuonare”. L’affinamento di questa narrazione avviene con l’uso del linguaggio del “Sé in Presenza” così ben spiegato da Ann Weiser. Il linguaggio della disidentificazione permette di porre una “giusta distanza” tra me e ciò che sento, non troppo lontano da non poterlo sentire o da mandarlo via, non troppo vicino da rischiare di esserne sopraffatto o perdermici dentro. Scrive Ann Weiser: “Normally we’d describe that feeling as, “I’m upset” or “I feel upset.” But what if, instead, we said, “Something in me is upset”?” – “Normalmente descriviamo questo sentire come “sono agitata, sono agitato “mi sento agitata, agitato”. Ma cosa succederebbe se dicessimo “qualcosa in me è agitato”?”.

There is ocean in me… O, so deep …
clawing with rage at the cliffs of the soul…
– D.H. Lawrence

Yes, indeed there is an ocean in me…
The deepest blue ocean filled with the songs of the oldest whales,
sometimes so deep that something in me might feel lost.

The purest blue ocean filled with the laughing of clever dolphins,
sometimes so close to my soul that something in me might feel nostalgic.
The darkest cave filled with the phantoms of what can go wrong with me, the world, us,
sometimes so scary that something in me might feel never showing up in Life again.
The gray and desolated mud filled with nonsense and nothingness,
sometimes so sad and lonely that something in me might feel completely asthenic.

The Jerusalem garden filled with the sound of flowing waters and with the songs of the birds,
bringing new seasons in nature and life,
sometimes so powerful in its simplicity that something in me might feel immortal.

The vast universe filled with a peaceful silence and sparkling wise stars,
sometimes so charming and soothing that something in me might feel dissolving in the Infinite.

In effetti, l’attenzione al linguaggio è un’altra caratteristica del Focusing che va a insaporire e rinvigorire la pratica dello storytelling partecipativo e la scrittura creativa che uso nella facilitazione. Ho sentito che portare il linguaggio della disidentificazione e la mappa del Focusing ha permesso molto spesso un salto di qualità e consapevolezza da parte delle persone nei processi di narrazione tramite l’espediente dell’ alter ego per esempio.

Il Focusing ha anche portato un’ulteriore conferma, da un’altra angolazione, dell’intuizione che “nominare” ciò che si sente e ciò che accade, ha un “potere”. Questa intuizione è in realtà radicata nel mio vissuto; sin da ragazzina, l’atto dello scrivere e trasformare in storie e poesie ciò che provo mi ha spesso salvato la vita. E’ il potere della “parola giusta”, proprio quella che può individuare, descrivere ciò che sento e vedo. Daniel Siegel ha addirittura identificato una tecnica che chiama “name it to tame it” (“dagli un nome e lo addomestichi”). In parole semplici, significa che il solo identificare e quindi nominare un’emozione intensa può ridurre l’ansia che ne deriva. Anche nella dimensione socio-politica, il potere della parola mi ha sempre affascinato: “Le voglio tener care le parole per illuminare le notti scure. Cesellerò parole che rendono vane le frontiere” dice Fatima Mernissi ricordando anche come Sherazade si salva dal re assassino grazie al potere della narrazione. E Simone de Beauvoir scriveva: “narrare è già politica”, e sembra che Rosa Luxemburg abbia scritto: “Il primo atto rivoluzionario è chiamare le cose con il loro nome”. Nel 2018, circa il mio laboratorio “Suture” scrivo: “Quando nominiamo o rappresentiamo ciò che ci succede dentro e fuori, siamo Presenti nella trama della Vita.

Troviamo le suture tra passato, presente e futuro, tra strappi e riconciliazioni, tra memoria e proiezione futura, tra storia personale e Storia collettiva, tra serie di avvenimenti che rimarrebbero una sequenza casuale, talvolta intollerabile, se non ricuciti da noi in una cornice di apprendimento e possibilità”.

Quando nel Focusing si fa la spola tra la parola e la sensazione significativa, si fa proprio questa ricerca della “parola giusta”, la parola “maniglia” come la chiama Gendlin, che ci può far afferrare ciò che sentiamo, ciò che avviene dentro di noi, e così poter sentire quel sollievo che deriva “solo” dall’averlo “nominato”. Quella cosa è stata nominata e così si è sentita vista, probabilmente darà anche un messaggio specifico, e così può rilassarsi, e noi con lei. “Quando si trovano le parole giuste, la sensazione significativa si apre, si evolve”.

Progetto Life1

Durante la formazione di Focusing Trainer, lavoravo come consulente e facilitatrice per l’ente ANCI Umbria, al progetto di inclusione socio-lavorativa per i cosiddetti “Cittadinə di Paesi Terzi” “LIFE”. L’attività principale affidata all’equipe di cui facevo parte riguardava un percorso di valorizzazione delle competenze e di scrittura di un proprio portfolio/CV. Il percorso è diventato sempre più un percorso di consapevolezza sui propri doni e sui propri sogni. Abbiamo lavorato con gruppi di migranti, rifugiatə e richiedenti asilo, sia in presenza, sia online.

Degli incontri in presenza, ricordo in particolare due stuck molto simili, uno portato da una donna e uno da una ragazza, che hanno avuto evoluzioni opposte. In entrambi i casi, le premesse condivise da Focusing e SPT sono state fondamentali per il dispiegarsi del processo.

Nella statua del blocco, la donna era in piedi, a gambe leggermente divaricate, aveva la testa leggermente abbassata con le mani dietro la nuca in una leggera pressione, con i gomiti aperti.

Ho dovuto un po’ insistere perché provasse a “stare con”, restare nella sua immagine, e sentire cosa nel corpo voleva cambiare. Ho preso l’immagine su di me a farle da specchio e “tenerle compagnia” mentre la manteneva, e quello che io sentivo era dover mettere giù le braccia.

Quello che lei ha fatto è stato chiudere i gomiti e abbassare ancora di più il capo. Quando le ho chiesto una parola o una frase da quella posizione, ha detto più o meno così: “arrendersi, trovare un po’ di tranquillità, piangere”. Così come la donna aveva sentito di “chiudersi”, in maniera speculare e opposta, la ragazza, da una posizione simile di pressione sulla testa, aveva avuto bisogno di aprirsi (lanciando letteralmente le sue braccia via dalla testa dove premevano sulle tempie). Questo mi ha dato modo di condividere con il gruppo come ogni blocco sia vissuto in modo diverso da ogni persona e come soprattutto non ci sia una “soluzione” ma un “passaggio” e un passaggio che e’ diverso per ciascuna persona a seconda del proprio momento nella vita. C’è un tempo per chiudersi e un tempo per aprirsi, e chi lo vive sa in che stagione è.

Nel 2020, dal mese di marzo tutto il mondo è entrato nella pandemia da COVID19 e, consequenzialmente, per lunghi periodi è scattata la procedura di lockdown, che ha costretto moltissime persone a reinventare attività, servizi e quant’altro, in una versione online. Nel passaggio dalla versione in presenza alla versione online del progetto Life, l’uso del linguaggio corporeo è stato introdotto con molta cautela, aggiungendo via via complessità.

Negli ultimi incontri abbiamo sentito di lavorare addirittura con chi aveva problemi con la webcam e abbiamo guidato il processo come fossimo al telefono. In questo caso, J. Ha esplorato la sua sfida attraverso una posizione corporea, con la webcam chiusa. Le ho chiesto quale era la statua, una parola che emergeva da quella statua e ho facilitato il processo fino alla trasformazione. Non abbiamo avuto l’opportunità di vedere la trasformazione, ma ci è sembrato

di vederla quando con un bel sospiro e un tono squillante, diverso dal tono basso e pacato di alcuni minuti prima, J. ha esclamato come insight: “Get my body back! Riprendere il mio corpo!”.

K. è passata da una statua ripiegata a una statua del “volo”, un’apertura delle braccia, dello sguardo e del sorriso. I. ha aperto le mani e il suo insight era: aprirsi al mondo, fare, conoscere, studiare. Tra gli insights che emergevano di volta in volta, c’erano: lasciar andare, respirare, correre e agire, accogliere ciò che non posso cambiare, accettare, testa alta e braccia aperte, guardare altrove, fare uno sforzo. Sono espressioni semplici, vissute ed emerse nell’ascolto del corpo, rimandano un cambiamento di percezione, un apprendimento su di sé, che poggia in un’esperienza autentica e significativa. E’ molto arricchente portare il linguaggio e l’approccio del Focusing in questo lavoro. Per molte e molti di noi è difficile, se non insopportabile, stare con delle sensazioni di disagio, come ansia, paura, dolore. Quello che facciamo è ignorarle, passare oltre, fino a “cacciarle”, “zittirle”, ci identifichiamo con la parte di noi che “forte”, o almeno vuole esserlo, o con la parte di noi che ha subito la risposta per tutto. Portare il linguaggio e l’approccio del Focusing apre la possibilità di stare accanto a queste sensazioni.

M. ha mostrato la sua statua del blocco con le mani sulla testa, dicendo: “è come volessi tenere i pensieri tutti là”. Ho poi chiesto se c’erano altre parti di lui che sentivano altro in quella sfida.

M. ha trovato una parte di sé nella pancia chiusa, piegata. Ha messo le mani intorno alla pancia, si è un po’ piegato. M. ha subito detto che bisogna partire, agire, fare, essere forte. Era come se le parole e le frasi fossero completamente staccate dalla sua posizione ripiegata sulla pancia. Ho invitato M. a restare accanto alla parte della pancia come si starebbe accanto a un amico, senza voler suggerire cosa fare o senza volerlo cambiare. Pian piano, ascoltando la parte della pancia, sono arrivate le frasi che avevano a che fare con la paura di fallire, o di non essere all’altezza.

“Una parte di me…” è un’espressione tipica del linguaggio della disidentificazione del Focusing, che consente di ascoltare tutte le parti di sé senza esserne sommersi, praticando quello che viene chiamato da Ann Weiser Cornell il linguaggio del “Sé-in-Presenza”.

Se riguardo il mio lavoro con lo storytelling (“Storie che riconnettono”), posso rilevare, anche in questo caso, delle sovrapposizioni interessanti tra il linguaggio della disidentificazione che permette di avere la giusta distanza dal sentire e gli esercizi di narrazione utilizzati nel progetto Life. Si faceva uso delle immagini per rispondere a domande su di sé, sul proprio talento e sul sogno collegato alla missione che si ha nel mondo, si usava poi la terza persona (alter ego) per raccontare la storia ispirata dalle immagini. Le persone riconoscevano che con l’espediente dell’alter ego riuscivano “a dire di più” di quanto avrebbero detto in prima persona e si permettevano di esplorare di più le immagini scelte facendo emergere i significati impliciti della scelta, soprattutto sembra si permettessero di esprimersi di più sulla parte riguardante il sogno.

La combinazione del linguaggio analogico e simbolico (implicito!) delle immagini e la tessitura del racconto di sé in terza persona hanno permesso una ricomposizione tra passato, presente e futuro, in cui l’espediente dell’alter ego crea uno spazio estetico, in cui sono al tempo stesso “vicina e distante”, “dentro e fuori” alla mia storia, aprendo prospettive talora impensate.

L’espediente dell’alter ego e quindi l’utilizzo della terza persona è stato utilizzato nei gruppi dove il livello di conoscenza della lingua italiana era molto buono.

Seminario di Formazione – University of Applied Sciences Würzburg-Schweinfurt

Ho avuto modo di sperimentare la combinazione del Focusing e in particolare il linguaggio della Presenza con l’esercizio dello stuck del SPT quando ho lavorato come formatrice per l’University of Applied Sciences Würzburg-Schweinfurt2. Il mio seminario riguardava l’uso delle arti sociali, e in particolare il processo “Storie che riconnettono” (che segue la mia mappa spiegata nella prima parte), nella trasformazione del conflitto.

Nel cuore del laboratorio esperienziale, ho proposto l’esercizio dello stuck integrandolo con degli interventi di facilitazione che usavano il linguaggio del “Sé in Presenza”. E’ stato molto potente poter sentire e vedere come non esisteva una sola scultura di uno stuck, ma una sorta di arcobaleno di sculture che, potremmo dire, erano le diverse parti del sé che mostravano come vivevano quella certa situazione problematica o di sfida. L’esercizio dello stuck è diventato come una sorta di focalizzazione guidata in cui chi focalizza, prima di passare al verbale, resta nel corporeo, traducendo la sensazione significativa in una scultura corporea visibile. Di prassi, lo stuck non è “guidato”, la persona che esplora lo stuck riceve solo delle indicazioni di procedura e metodo prima di iniziare, quindi, durante il processo, non c’è intervento da parte di chi facilita. In questa formazione, ho facilitato e guidato il processo, usando anche alcuni espedienti ispirati alla tecnica dell’Arcobaleno del Desiderio del Teatro dell’Oppress@ di Augusto Boal. La conoscenza del Focusing mi ha aperto occhi diversi e più attenti nel vedere le sculture dello stuck, così da poter guidare le persone a esplorare più parti o comunque a renderle visibili. Per lo stuck l’indicazione è “stare-con” finchè dal corpo emerge un impulso a un movimento per una nuova scultura, che è la “scultura due”, definita come “due” per intendere che non c’è mai la scultura definitiva ma passi successivi. Attraverso il Focusing è stato possibile rendere effettivo il principio dello “stare-con”. Spesso la scultura presenta una parte rannicchiata o piegata o, in un certo senso, in sofferenza o tensione e spesso le persone passano troppo presto alla “scultura due”. Poter dare voce e sentire il bisogno della parte presentata dalla “scultura uno” con un approccio Focusing, porta a scoprire altre parti, altre sculture come in una matrioska e la trasformazione mi sembra avvenga più in linea con il principio del lasciarla emergere dal corpo stesso e non da qualcosa che arriva dalla mente o come un suggerimento di un’altra parte. Spesso, per esempio, mi sembrava che la trasformazione venisse dalla parte che voleva risolvere, trovare una soluzione, o la parte che ci sprona a essere sempre forti senza mostrare vulnerabilità. Lo sguardo Focusing mi ha permesso di intercettare questa ipotesi e verificare nel processo se quella scultura nata da un movimento sia una “scultura due” emergente da una trasformazione oppure una scultura altra che rende visibile un altro punto di vista interno.

Sento che ci sono ancora molte potenzialità in questa combinazione, soprattutto in presenza offline.

Modulo di Formazione – CISP

Ho avuto modo di sperimentare nuovamente la combinazione SPT e Focusing durante la formazione online “Storie che riconnettono” per il CISP-Centro Interdisciplinare Scienze Pace di Pisa3.

In questo caso, ogni partecipante ha trovato la scultura dello stuck e ha potuto provare cosa differiva dal dare voce alla scultura usando la prima persona e poi usando la frase “Qualcosa in me…”. Anche in questo caso, introducendo il linguaggio Focusing, la scultura dello stuck ha avuto opportunità di complessificarsi. Arawana Hayashi spesso nella formazione svolta a Berlino a cui ho partecipato, diceva all’incirca così: “We are not our stucks, stuck is something we have or °wear° like a shirt” – noi non siamo i nostri blocchi, il blocco è qualcosa che abbiamo, o indossiamo, come una t-shirt. Grazie al linguaggio del Sé in Presenza, questa sottolineatura entra pienamente nel processo.

Mentoring Program – ImaginAction

Il Focusing offre un modello per l’ascolto di sé e anche dell’altro molto pulito, semplice, essenziale, eppure, o quindi, potente. Ho avuto modo di rafforzare la proposta dell’esercizio cosiddetto 5’+5’ di ascolto profondo usato nei contesti di facilitazione dei gruppi con i principi dello scambio alla pari del Focusing. L’esercizio 5’+5’ prevede la divisione in coppie e la condivisione a turno di qualcosa a partire da una domanda generativa. La particolarità è che chi ascolta è completamente in silenzio. Nello scambio alla pari due persone focalizzano a turno:

dividono equamente il tempo, chi focalizza è responsabile del proprio processo, chi ascolta è umanamente presente all’esperienza dell’altra persona, si mantiene la riservatezza sia all’interno della coppia, sia all’esterno. Durante il mio modulo sull’ascolto e la condivisione per il Mentoring Program di ImaginAction4 ho attinto molto dai principi del setting dello scambio alla pari per introdurre l’esercizio di ascolto e condivisione. Il tema era il proprio dono/talento e la sfida da affrontare. Ho posto quindi due domande: quale è il mio dono? Quale è la sfida di questo momento? E ho invitato il gruppo a rispondere a ciascuna domanda scegliendo un’immagine tra quelle presentate condivise sullo schermo (si è trattato di una formazione online durante la pandemia). Nelle stanze zoom i/le partecipanti in coppia hanno condiviso sul dono e sulla sfida lasciandosi ispirare dalle immagini scelte. Nella consegna per la condivisione nelle stanze ho citato un brano tratto dal testo di Neil Friedman, “Experiential Peer Listening”:

Now you are the listener. You are not expected to be wise, to know what the person should do, or how the person should live. … You are giving your full attention and presence… Someplace inside, someplace deep inside, we all want someone to listen to our heart’s song. We want to sing an aria of our pain, a ballad of our love, a medley of our anger, hurt, sadness, joy. We want to give voice to what is inside every one of us: the particular ways we have been blessed and hurt by life.- Ora sei la persona che ascolta. Non ci si aspetta che tu sia saggio o saggia, o che conosca cosa la persona debba fare o come debba vivere… Da qualche parte dentro, da qualche parte nel profondo, vogliamo tutti che qualcuno ascolti la canzone del nostro cuore.

Vogliamo cantare un’aria del nostro dolore, una ballata del nostro amore, un miscuglio della nostra rabbia, dolore, tristezza, gioia. Vogliamo dare voce a ciò che c’è dentro ognuno di noi: i modi particolari in cui siamo stati benedetti e feriti dalla vita.

Il cavallo, la farfalla e la calla

Sono il cavallo che, dopo anni di recinzione, sta per saltare il recinto,
sotto gli zoccoli che scalpitano,
già sente la prateria dove correrà libero.
Mentre scalpita, nel suo scalpitio, grazie al suo scalpitio,
si crea, oltre il recinto,
una prateria aperta, estesa, infinita.

Sono la crisalide nel bozzolo che, dopo settimane nel bozzolo,
sta per metamorfizzarsi.
Nelle ali strette al corpo ancora chiuso nel bozzolo,
già sente la possibilità del volo.
Mentre spinge le ali contro il bozzolo, nel suo spingere, grazie al suo spingere,
si apre lo spazio per volare.

Sono il bocciolo di una calla bianca che aspetta la temperatura giusta per sbocciare.
Dal suo essere racchiuso, protetto, contenuto,
arriva la possibilità di schiudersi nella bellezza.

Prospettive

Nel portare il Focusing nel mio lavoro, è fondamentale per me ricordarne la dimensione sociale di cui ha scritto e parlato anche Gendlin.

“The problem is that focusing brings you very deep and it opens up a lot of things and that is so precious that you are content with that and in the action space you do not change and.. That’s the limit of the whole story… and when you are into all these big things that come through focusing the action territory seems trivial and externalised and not very interesting, and yet, without that, life does not expand” – “Il problema è che il focusing ti porta molto in profondità e apre un sacco di cose e ciò è così prezioso che sei a posto con questo e non cambi nel territorio dell’azione e … questo è il limite dell’intera storia… e quando sei dentro tutte queste grandi cose che arrivano attraverso il focusing il territorio dell’azione sembra triviale e esternalizzato e non molto interessante, eppure, senza questo, la vita non si espande…” (frasi di Eugene Gendlin, estratte dal video “Action step in Focusing”).

Poiché il Focusing porta “a sentire di essere più costantemente in contatto con sé e una maggiore autenticità nella relazione” apre ripercussioni sociali e politiche profonde e autentiche.

Nella prospettiva di portare il Focusing come strumento di accompagnamento alle equipe di persone che lavorano nel sociale, nell’educazione, questa è la premessa che mi porta a definire il lavoro sia come sostegno al benessere personale, sia come processo di trasformazione sociale.

Ho due ipotesi di ricerca-azione che mi guidano nelle prospettive di impiego del Focusing. La prima ipotesi è: il benessere delle persone il cui lavoro è incentrato sulla relazione ha riverberi in tutto il sistema e diventa benessere collettivo. Per promuoverlo è fondamentale avere strumenti per coltivare l’auto-empatia e l’empatia.

Nella mia professione, ho lavorato con assistenti sociali, mediatori e mediatrici culturali, rilevando quanto spesso siano sottoposti a condizioni prossime al “burn out” che sarebbe più preciso definire “compassion fatigue”. E’ qualcosa che accomuna tutte le persone che svolgono un lavoro di cura, di prendersi cura, o comunque, centrato sulla relazione.

Io stessa, facilitando laboratori con donne e uomini richiedenti asilo, ho provato questo senso di “fatica della compassione”. L’ascolto empatico delle storie di ferite e di ingiustizia lascia nelle persone la sensazione di essere stremate, consumate, arrabbiate e impotenti.

Ricordo in modo intenso un episodio in particolare in cui mi sono sentita così. Lavoravo come facilitatrice nel progetto “Puzzle”, nell’azione di progetto di “mediazione e gestione del conflitto”.

Tra le attività, facilitavo un laboratorio per donne richiedenti asilo in un CAS a Perugia. Durante il laboratorio, le donne – quasi tutte nigeriane – avevano messo in scena il biasimo e l’indifferenza degli italiani del quartiere con delle sculture corporee. Le donne nigeriane soffrivano tutte lo stigma della prostituta. Ho invitato a cambiare la situazione entrando in scena.

O.B. è rimasta nella sua scultura, il corpo dolcemente inclinato verso le case italiane con occhi curiosi, le mani dolcemente posate sulle lunghe gambe, poi ha scosso il suo corpo e ha detto: “l’unico modo è cambiare il colore della mia pelle”. Posso ancora quasi sentire la pugnalata che mi è arrivata al cuore, ascoltando questa frase. Quella pugnalata, con il focusing, avrebbe potuto essere messa a fuoco come felt sense ed essere accolta da uno spazio di “presenza”, in cui è possibile essere accanto al mio sentire, né troppo vicino da esserne sopraffatta, nè troppo distante dal marginalizzarlo, evitarlo, rifiutarlo.

La “compassion fatigue” se, all’inizio, può manifestarsi come senso di impotenza, inadeguatezza, può poi sfociare in un senso di intorpidimento e distacco e l’empatia sbiadisce.

Una seconda ipotesi di ricerca-azione è: se le persone il cui lavoro è incentrato sulla relazione fossero più costantemente in contatto con sé, sarebbero più autenticamente nella relazione e meno facilmente, direi ossequiosamente, pronte a implementare procedure che allarmano il loro senso di “giusto” e “giustizia” interno.

Durante la gravidanza della mia seconda figlia, proprio perché ero in formazione per diventare insegnante di focusing, ho avuto un’attenzione particolare alle modalità di ascolto e accoglienza di ostetriche e personale sanitario dei consultori. Ho notato una mancanza di spazio-tempo, necessaria per una relazione davvero autentica. Mi ha colpito che alcune domande sul mio stato psicologico fossero poste verso la fine dell’incontro, senza “preamboli” e somministrate tramite un questionario. Ad esempio: “hai pianto nell’ultimo periodo?”. Io avevo sì pianto ma una parte di me non si sentiva per nulla a suo agio nel mostrare questa vulnerabilità. In uno spazio di accoglienza e tempo morbido con le ostetriche che poi mi hanno accompagnato per il parto in casa, ho sentito di mostrare anche la vulnerabilità. Ho trovato che le domande per la valutazione dello stato emotivo della donna in gravidanza sono dette “domande di Whooley”, e fanno parte di un progetto di intervento per il riconoscimento del disagio psichico perinatale.

Nel caso di positività delle domande di Whooley e di presenza di fattori di rischio psicosociale, scatta un certo protocollo, e alla donna viene proposto un colloquio clinico di approfondimento da parte di un operatore sanitario delle cure primarie e, se necessaria, la definizione di interventi appropriati a livello di equipe multidisciplinari. In una conversazione con l’ostetrica che mi ha seguito per il parto in casa, ho saputo che è dato un tempo limitato per i colloqui e alcune ostetriche si sono rifiutate di condurre certi tipi di colloqui in tempi così stretti, trovandolo “non giusto”. La mia ipotesi è che, quando pratichiamo il focusing, o qualunque altra pratica che ci consente di essere persone pienamente connesse a noi stesse, non accetteremo di usare il nostro ruolo per ciò che non ci sembra giusto.

Su questo punto, riporto un altro episodio dalla mia esperienza lavorativa. In un’attività sull’esercizio del nostro potere personale nostro malgrado, un’assistente sociale di una prefettura, ha avuto modo di ascoltare le proprie sensazioni quando ha dovuto implementare una procedura “ingiusta” nei confronti di una donna richiedente asilo. Si è sentita come volesse sprofondare. Dentro di noi, nel corpo, se solo lo permettiamo, il senso di ciò che è giusto si manifesta in modo inequivocabile.

Dunque, come facilitatrice di arti sociali e insegnante di Focusing, vedo un campo di esplorazioni possibili in programmi di supervisione, supporto e formazione di equipe di persone che lavorano in ambito sociale, educativo e sanitario, che avrebbero effetti sia nella dimensione del benessere personale, sia nella dimensione della relazione e quindi, per riverbero, nella dimensione sociale più ampia, fino alla dimensione politica.

Nel lavoro con le equipe, possono essere messe a servizio le sinergie tra Focusing e linguaggio delle sculture corporee (ispirato da Social Presencing Theatre e Arcobaleno del Desiderio), le sinergie tra linguaggio del Sé in Presenza e lo storytelling come pratica di consapevolezza, ascolto e condivisione.

Inoltre, per la supervisione, intravedo possibilità di intrecciare il Focusing e lo strumento del Coaching Circle. Il Coaching Circle è una delle pratiche più potenti della Teoria U, ideata dallo stesso Otto Scharmer del MIT di Boston. Il circle ascolta, con mente, cuore e volontà aperti, il case giver, la persona che racconta il proprio caso, di solito una sfida, una situazione professionale di difficoltà. L’indicazione principale è che il circle non dà soluzioni, le persone del circle rimandano immagini, metafore, gesti, agendo da uno spazio di sospensione del giudizio, del cinismo e della paura. Il fatto di non poter dare consigli o soluzioni, che è la risposta di default quando siamo di fronte a qualcuno che ci parla di un problema, apre scenari e future possibilità completamente nuovi nelle relazioni tra le persone.

Sarebbe molto interessante l’introduzione del felt sense come fonte di conoscenza e l’apporto del linguaggio della disidentificazione nella narrazione della situazione da parte del case giver.

Le domande guida che si usano nel Coaching Circle per la struttura del racconto del caso portano a un linguaggio razionale e logico, la dimensione della focalizzazione porterebbe verso un linguaggio ancorato al sentire corporeo, simbolico, analogico e in dialogo con il razionale.

Una farfalla nel bozzolo stretto del petto,
il desiderio dirompente di spiegare le ali, manifestarsi, volare.

Un mantello pesante, logoro, scuro sulle spalle
l’angoscia di restare giù, dietro, sul fondo.

Mantello, malvisto da tutte prima,
ora visto per come è,
si bagna, si lava, si alleggerisce, e dice:
com’è il mantello dipende da come lo si guarda, da come lo si porta.

Bibliografia

Boal A, L’Arcobaleno del desiderio, edizioni La Meridiana, Molfetta (BA) 2010

Gendlin E.T. (1978-1981), Focusing. Interrogare il corpo per cambiare la psiche, Astrolabio, 2001

Gendlin E.T , Il Focusing in Psicoterapia. Introduzione al metodo esperienziale, Astrolabio, Roma 2010

Pasquarella C, Pasquarella ML, La promozione della salute a venticinque anni dalla Carta di Ottawa, in Rivista scientifica “Igiene e Sanità pubblica”, Estratto Periodico bimestrale, Volume LXVIII – N. 3 – Maggio / Giugno 2012

Scharmer O, Teoria U. I fondamentali. Principi e applicazioni, Guerini Next, Milano, 2016

Weiser Cornell A, Focusing. Il potere della focalizzazione nella vita e nella pratica terapeutica, Edizioni Crisalide, Spigno Saturnia (LT) 2006

Weiser Cornell A, McGavin B, The Focusing Student’s and Companion’s Manual, part 1, Sezione 4, “Abitare il margine – Sei raccomandazioni”, Tr. It. di Roberto Tecchio

Sitografia

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Tr. it.: https://www.focusinginsideout.it/wp-content/uploads/2021/04/Ascolto-esperienziale-tra-pari-Friedman-e-Diener.pdf

Gendlin E.T, Che cosa si intende per Felt Sense? (Tratto da: Gendlin ET, Focusing Oriented Psychotherapy, , The Guilford Press, 1996, cap. 6: The Crucial Bodily Attention. Tr. it. di Letizia Baglioni), https://www.focusinginsideout.it/2017/10/14/1416/

Gendlin E T, Ph.D., Action Step in Focusing? https://www.youtube.com/watch?v=CUR5Fhuucko Hayashy A, Stuck Arawana Hayashi https://www.youtube.com/watch?v=Balut4LAVLA

Olimpico I, Storie che riconnettono, https://imaginaction.org/thealbero-storie-che-riconnettono

Olimpico I, Tracce dai progetti FAMI (Life e Puzzle) https://imaginaction.org/thealbero-tracce-dai-progetti-fami-tracks-from-projects-with-migrants

Olimpico I, Riconnettersi con sé, https://imaginaction.org/thealbero-riconnettersi-con-se

Perlstein A, Ph.D., Frolinger B, M.A., A seventh movement: action step and “Focusing on the go” https://focusing.org/sites/default/files/legacy/folio/Vol21No12008/04_ASeventhTRIB.pdf

Siegel D, Mindsight https://drdansiegel.com/mindsight/

Siegel D, Name it to tame it https://drdansiegel.com/whole-brain-child-handouts/Social Presencing Theatre, https://ottoscharmer.com/SPT

Tecchio R, Linee guida per scambi alla pari di focusing, https://www.focusinginsideout.it/2020/05/08/linee-guida-per-scambi-alla-pari-di-focusing/

Work that Reconnects, Spiral, https://www.joannamacy.net/work

Note

1Il progetto FAMI 2014-2020 PROG – 2430 LIFE: Lavoro, Integrazione, Formazione, Empowerment, di cui è capofila la Regione Umbria, promuove percorsi integrati e individualizzati di supporto all’autonomia e all’integrazione socio-lavorativa dei cittadini migranti. ANCI UMBRIA partecipa come partner di progetto all’implementazione delle seguenti attività: promozione di percorsi di governance territoriale volti al rafforzamento della rete di stakeholders nell’ambito dell’inclusione socio-lavorativa; realizzazione di interventi integrati per revisionare i modelli già esistenti di profilazione e messa in trasparenza delle competenze dei migranti anche attraverso attività di consulenza volta al riconoscimento dei titoli di studio e agli interventi volti all’emersione di competenze formali, informali e non formali; percorsi di Empowerment dei migranti accompagnamento al lavoro; attivazione di percorsi innovativi e sperimentali per incentivare e favorire l’auto-impresa e la realizzazione di idee innovative per gruppi specifici.

2DAAD project “International Social Work Acting in Crises”, Attitude matters – module “Violence prevention & conflict transformation” – University of Applied Sciences Würzburg-Schweinfurt, Faculty of Applied Social Sciences and Lebanese American University of Beirut Lebanon. https://www.thws.de/

3La formazione “Storie che riconnettono” rientrava nel corso online “Fili di parole: Public Speaking, Storytelling e uso della voce in formazione” organizzato dal CISP Centro Interdisciplinare Scienze per la Pace dell’Università di Pisa, all’interno della sua Scuola Formatori e Formatrici. https://cisp.unipi.it/

4Il programma di Mentoring è organizzato da ImaginAction con l’intenzione di coltivare spazi di apprendimento per leaders che sostengono la riconnessione con sé, gli altri e la natura, come chiave per affrontare le diverse e inter-relate crisi che il mondo sta affrontando. https://www.imaginactionmentoring.com/